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lunedì 9 ottobre 2023

telecomando

Mai come oggi mi manca mio padre che prima si beccava lui tutti gli scazzi e le lamentele di mia madre e oggi che non c'è più me li devo beccare io al posto suo. Mio padre aveva sviluppato negli anni una tecnica zen in cui azzerava il sonoro dell'udito con un particolare telecomando mentale, io che sono un principiante ancora non ho capito dove sta il telecomando.

giovedì 21 ottobre 2021

a ciascuno il suo

Non so quella degli altri (perché ognuno in fondo c'ha la sua) ma la mia Legge di Murphy è relativa al fatto che per una volta nella vita che NON vado al Salone del libro e quell'anno dicono c'è stata la migliore edizione da anni (cioè da tutti quegli anni in cui ci sono andato). Ergo, o è il mio esistenzialismo esasperato che a naso mi spinge a tirarmi fuori da ogni festa per starmene in disparte a guardare il muro, oppure più semplicemente il sistema è sempre quello ma dove passo io si guasta il vino.

lunedì 25 novembre 2019

a letto

Ieri sera a letto mi ero messo
dalla parte destra quella che occupa
lei quando è qui
e stamani svegliandomi mi son ritrovato
a sinistra di dove nel buio ascolto insonne talora
il battito possente del suo esserci
Cosa mi ha indotto dunque durante la notte
ad abbandonare lo spazio del suo grande
corpo assente
se non l’ansia d’essere anche io niente?

(Giorgio Bassani, Epitaffio, Mondadori, 1974)

venerdì 29 dicembre 2017

il cuore vuoto

Oggi al funerale di Tina pensavo che per quanto ci sforziamo di essere bravi e onesti, di amare e rispettare gli altri, di esserci per i nostri cari, proprio per questo siamo già, in potenza, portatori sani di dolore, la certezza che verremo a mancare a qualcun altro causandogli una sofferenza indicibile. Noi pensiamo sempre a ciò che perderemmo “se tu non ci fossi”, e non consideriamo mai che siamo prossimi alla fine, manca un soffio, e di quella fine siamo cellule di male già pronte a scoppiare nel cuore vuoto degli altri. Il nostro vuoto scavato con amore.

domenica 31 gennaio 2016

illusioni poetiche

Che fine ha fatto Antonio Bassano, lo ricordo
l’ultima volta alla fiera del libro, nero nel suo
eskimo da guerra, nell’anonimato senza scampo
dei poeti. Andavamo in cerca di fortuna, e
trovavamo Angiuli, Alborghetti, Oldani, cui
confidavano i nostri primi balbettii. Mi scriveva poi
della raccolta che nasceva con fatica
dalle pieghe del lavoro, sempre puntuale alle dieci
e un quarto la sera, quando sedeva in cucina da solo
e rievocava fra le briciole di pane il profumo
inconfondibile del tempo e dell’onda di Hokusai.
Lo ricordo distrutto dall’amore, ormai perduto
nel silenzio della stanza, poeta di postumo
successo per un libro ormai dimenticato, quando
l’ultima parola è detta e non ancora pronunciata.
Me lo immagino, dopo il trasloco, preda dei suoi orari
e delle sue visioni senza sfogo, la corsa ogni mattina
al tram, il ticchettio dell’orologio, il piacere solitario
del silenzio fino a tarda notte, e poi l’osservazione
dei vicini, dal palazzo di fronte, per tornare a casa.

sabato 5 settembre 2015

assenzialismo

Mi sono incamminato sulla strada dell’assenzialismo, che è la filosofia di Learco Pignagnoli così come la interpreta Ugo Cornia. L’assenzialismo, ha detto una volta Ugo Cornia, è un movimento che sceglie il non esserci come pratica. Ma in che senso, il non esserci? Il non esserci nel senso della pratica quotidiana di mancare a qualsiasi evento, anche eventi minimi di una mattina qualunque, nel senso di essere assenti il più possibile a se stessi, agli altri e alle cose. Se nel corso di qualsiasi evento, anche dei più banali, dice Cornia, qualcuno chiede “C’è Pignagnoli?” la risposta inevitabile è “No, Pignagnoli non c’è”, perché Pignagnoli non c’è mai. Pignagnoli è sempre assente. 

Paolo Nori 

[Si può leggere tutto l’articolo, uscito ieri su Libero, QUI]

domenica 29 marzo 2015

povero jannacci

Sono due anni oggi dalla morte di Enzo Jannacci e, devo dire, è ancora incredibilmente difficile trovare in giro molta della sua musica, spesso interi dischi. Forse perché Jannacci non è mai stato un autore "radiofonico" (Vengo anch'io a parte). Spesso era decisamente troppo colto e triste per l'ascoltatore medio, e anch'io adesso, che gli volevo fare l'omaggio, stavo cadendo nell'errore di pubblicare un pezzo triste, disperato (Il panettiere, che parla di un suicida) oppure uno colto (la sua versione di Via del campo, che in effetti passa per un pezzo di De Andrè, ma la musica De Andrè l'ha rubata a Jannacci). Alla fine metto una canzone che, invece, è semiseria, la paraculata di un successo radiofonico di Joe Cocker e di tanti suoi colleghi, ed è un po' la terza via di Jannacci, perché la tristezza, se non sai ridere, è solo una tristezza a metà. Jannacci la canta con tanta di quella paraculaggine che ti viene voglia di cantarla con lui. Da provare, per credere.

sabato 20 settembre 2014

facce e nomi

Stasera mi sono accorto di non ricordarmi il nome di nessuno dei miei compagni di liceo, appena del mio compagno di banco. Di qualcuno ricordo il nome, di altri il cognome, ma tutto insieme no, di molti nemmeno il viso. Vale lo stesso per le medie o le elementari, o dei miei coinquilini all'università. Non ho conservato foto, né particolari ricordi che li riguardino. Mi stupisco a volte di gente che mi saluta con tanto calore ricordando giorni bellissimi passati insieme. Io non mi ricordo di nessuno di loro, o faccio fatica. È come se non avessi più una giovinezza, oppure se il presente si mangiasse giorno per giorno le persone che mi sono passate accanto. E mi chiedo: quanti di quelli che mi sono intorno adesso sopravviveranno ai vuoti della mia memoria? Già di qualcuno il viso comincia a farsi incerto.

mercoledì 10 settembre 2014

una poesia di milo de angelis

Non è più dato. Il pianto che si trasformava
in un ridere impazzito, le notti passate
correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon
di un’edicola. Non è più dato. Non è più nostro
il batticuore di aspettare mezzanotte, aspettarla
finché mezzanotte entra nel suo vero tumulto,
nella frenesia di tutte le ore, di tutte le ore.
Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola
la morte, poche le ossessioni, poche
le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade
che portano fuori di noi, poche le poesie.

(da Tema dell'addio)

domenica 24 agosto 2014

le persone importanti

Ci sono persone che dici importanti
finché non ti accorgi che sono passanti.
Arrivano dunque e c'è uno scoppio. E
poi? Poi nulla, sono passate. Una
si lascia dietro una pozzanghera. Un'altra
una crosta che non passa. Un'altra
il suo odore per strada, punge sui muri.

giovedì 27 marzo 2014

sbagli se pensi che ti odi

o se credi che ti auguri alcun male.
Il mio cuore non è grande
abbastanza a contenere troppi
sentimenti: è povero distratto
e deve a forza scegliere se far di te
silenzio o crucciarsi ancora un poco
sul tuo corpo spento sulla materia
irrazionale che ti spinge a un posto
ormai vuoto. Non è bene
che si parli più di te in questa casa
e morda pure la sua lingua
chi ritrova sul muro della siepe
lo strascico sbavato di un passaggio.

mercoledì 19 marzo 2014

sirene

Le mie trasgressioni si impilano in giardino contro il muro
(edificato quando Roma ha cominciato a indebolirsi, e sfregiato

da una palla di cannone.) Ho spettegolato; ho snobbato
un ospite a cena. Aspetto che il muro si contorca

per gli orribili gatti selvatici nutriti da vedove rimpicciolite
e qualche stramba bibliotecaria. Ho cominciato a esaurirmi

per via della tua assenza, uno dei peggiori sintomi dell’amore.
Per anni, ho avuto il buon senso di tenermi da parte.

Sono stata qui abbastanza da uccidere
due piante di menta e una lavanda,

poi farne risorgere la parte migliore.
Mi piacerebbe lasciarti morire sulla vite.

Non tu, il Tu che Sogno,
che passa attraverso il risveglio.

Guardare come la vedetta guarda la tempesta
ma senza bagnarsi. Essere quella.

Essere cosa?
Essere saggia più del cuore.

(Eliza Griswold)

mercoledì 5 febbraio 2014

addio a siena 3. due amori senesi

Gli amori dei poeti sono storie – raccontano –
non credono a un per sempre che sia eterno
non durano più a lungo che nei versi.
“Se sapessi come sento Siena tutta tua!
Ti respiravo nelle strade ed ero disperato.”
Lo scrive Montale alla sua Clizia.
Non c’è scampo alla distanza
eppure c’è una nicchia per chiunque
se ci credi in cui salvarsi
lascia illesi i ricordi le emozioni
persino della voce vibrazioni
che tremano nei nostri giuramenti
dai piedi della torre indifferente altissima se non
per i piccioni. A ognuno il suo rifugio
secondo le sue ali. Pensa il nostro
è ancora lì nella sala
del Mappamondo al tempo in cui
Simone si arrampicava ogni mattina
su impalcature traballanti di pittore
a dipingere più in alto
delle stesse finestre una città vertiginosa
conquistata sul vuoto
il cielo blu reale o cobalto
surreale e perfettissimo di un mondo
tutto nostro in cui nasconderci
e tracciare nuove rotte e chiavistelli
per le porte che mai aprimmo.
“Presto ti mando l’amuleto
una nuova poesia
e una lettera lunghissima” è Montale
che piange contro il tempo
malfattore che rosicchia le sue lettere
avvelena le fonti della storia e toglie
corpo a Clizia. Offre i suoi
scongiuri come talismani. Ne capimmo
noi presto l’importanza
e tu infatti poi mi regalasti
fermo il tuo orologio da portare
sempre in tasca. “Non lo voglio
– mi scrivevi – il tempo
senza te sarà vuoto sarà vuota Siena
come un letto senza baci.”
Ti regalo io un ombrello per salvarci
a te creatura d’acqua per difenderci dal cielo
dalla pioggia che rattrista
il nostro ultimo saluto quando
meno illesa a goccia a goccia che partivo
dalla strada mi gridavi “vai solo! vai solo!”
per due volte e già sembrava un’eco
nel tempo nella storia che racconto.
“Forgive my prose. Quando
come ci rivedremo?” chiude Montale
il suo carteggio irrisolto con Clizia.

sabato 25 gennaio 2014

una favola sui gatti e sull'amore

Il secondo giorno di novembre, festa d’ognissanti, Giuseppe afferrò i due mici dal pelo grigio e lucido che da alcune settimane avevano scelto il suo giardino secco come casa, li infilò in un sacco e li portò via di lì, strappandoli a quel luogo.
Erano mesi che provava a cacciarli. Sono povero, diceva, sono quasi senza lavoro. Non posso mantenervi, diceva, non siete figli miei e poi mi costate troppo!
Loro lo fissavano da lontano, nascosti dietro i vasi dei gerani secchi, che come spugne di pietra fossile, bucherellati e leggeri, stavano sospesi in fondo al giardino. Rispondevano con gli occhietti insolenti: una casa non è dove ti mettono a stare, ma dove scegli di rimanere.
Lui era anche d’accordo, si impietosiva, passava loro un piattino con una parte del suo pranzo. Loro si avvicinavano circospetti e divoravano voracemente ogni cosa, perché quando si è piccoli la fame è tanta. Ma a volte il piatto era così misero che sbuffavano tutti e tre dispiaciuti.
I due mici mangiavano con gusto, e avevano gli occhi puntati dovunque, perché non si fidavano di nessuno e quando provavi ad avvicinarti sfrecciavano via dietro i vasi.
Però si stavano affezionando gli uni all’altro. I due nei loro giochi si avvicinavano sempre più alla casa, e talvolta Giuseppe se li ritrovava dietro la finestra, che lo fissavano incuriositi o allungavano una zampina in alto, lungo il vetro. Altre volte, quando lo pagavano qualcosa di più, per festeggiare comprava loro un pugno di croccantini, di cui si leccavano da terra perfino le briciole.
Poi si pentiva della spesa. Non va bene, diceva Giuseppe per convincersi, non va niente bene.
Andò avanti così fin dal primo giorno per quasi tre mesi. Fino a quando cioè – il giorno della festa dei morti – si erano lasciati accarezzare a lungo e con piacere sulla schiena, mentre leccavano il fondo del piatto. Gli avevano accordato la loro totale fiducia.
Giuseppe dormì male quella notte. I pensieri si arrovellavano dentro di lui. Già da un pezzo aveva maturato un suo piano di salvezza economica e, ora che le circostanze glielo permettevano, cominciava a mancargli la volontà, gli tremavano le gambe all’idea. Comportati da uomo! si diceva, chiuso nel suo letto, e poi si insultava a lungo per convincersi a prendere sonno.
Così il giorno dopo, due novembre festa d’ognissanti, con l’aria di chi non ha dormito affatto, Giuseppe, ormai intestarditosi nei suoi propositi, portò fuori un piatto delizioso, cucinato appositamente per loro e che lui invece non toccò, preferendo digiunare per quel giorno, che si godessero il loro ultimo pasto insieme.
Lo posò per terra e si mise alle loro spalle, approfittando della fiducia riposta in lui, per guardarli mangiare un’ultima volta e con la bocca girata in basso per la disapprovazione di sé. Poi, poco prima che finissero, si piegò su di loro e con due gesti rapidi, di cui quasi non si accorsero, li afferrò e li infilò nel grande sacco bianco e ruvido che teneva nascosto dietro la schiena, in cui si agitarono spaventati per un pezzo, ma senza quasi fiatare.
Quando furono sfiniti e il sacco si afflosciò fra le sue mani, lo infilò in auto e li portò molto lontano, che non riuscissero più a ritrovare la via di casa. Prese anche con sé, stretti in un tovagliolo di carta, dei croccantini di quelli che piacevano tanto a loro. Per tutto il tempo fece finta di non sentire il loro pianto sommesso dal cofano dell’auto, un pianto che gli straziava il cuore.
Li portò lontano, in campagna, da una sua amica che se ne stava sempre sola. Aveva una gran massa di capelli arruffati e l’aria stralunata delle streghe nei vecchi libri di favole, ma era una persona di buon cuore che amava gli animali.
Staranno bene qui, gli disse lei, c’è molto spazio per giocare, li farò mangiare tutti i giorni. Lui provò ad allungarle il fazzolettino dei biscotti, ma lei li rifiutò. Non le leggi mai le favole?, gli disse, non si danno i biscotti ai piccoli abbandonati, hanno il magico potere di riportarli a casa. Darò loro i miei biscotti invece, così si abitueranno al mio odore.
Poi Giuseppe tornò a casa da solo. E per tutto il resto del giorno li cercò dietro i vasi di gerani, e ogni volta che non ce li trovava, cercava di soffocare il rimorso che gli covava in pancia, o quella che si ostinava a chiamare fame, piluccando i loro croccantini.

sabato 9 novembre 2013

mai scrivere d’amore

Dicono che un poeta non dovrebbe
mai scrivere d’amore. Non oggi
almeno, che piove, che la crisi
ci uccide nelle strade. È chiaro
che la mia non è poesia d’amore.
È solo la mia mancanza
ogni giorno d’una tua parte.

(Alessandro Canzian)

Alessandro Canzian vive a Maniago (Pordenone), ha la mia età, e già da alcuni anni ha fatto la scelta che sto facendo io in questi mesi, di dedicarsi alla poesia non solo nella scrittura ma anche attraverso la pubblicazione degli altri: è infatti il proprietario della Samuele Editore, Samuele dal nome di suo figlio. L'impegno che mette nella promozione della poesia e dei suoi autori è enorme ed ammirevole, e spesso i suoi rapporti editoriali si trasfmormano in vera amicizia. In una serie di foto che ho pubblicato un po' di tempo fa su alcuni autori conosciuti quando sono salito in Carnia per un festival di poesia lui manca. Era troppo schivo per posare.
Oggi pubblico questa poesia, e linko QUI la pagina del suo blog da cui è presa e che contiene una serie di versi nello stesso mood. Chi mi conosce e ha letto il mio Viva Catullo immaginerà facilmente che non potevo restarne insensibile.

martedì 29 ottobre 2013

i gattini

Poco dopo la tua morte due gattini randagi, grandi poco più della mia mano, hanno scelto il nostro giardino come casa. Dormono stretti per scaldarsi e si azzuffano come matti per il cibo. Sono sempre affamati e sempre insieme, indistinguibili e necessari l’uno all’altro come due gemelli. Tutti abbiamo bisogno di una spalla, penso. La tua mi manca sempre.

martedì 2 luglio 2013

due al bivio

Nessuno sa più che fare o di che vivere
l’uno sta immobile e pavido
osservando le ombre che s’agitano
sul muro illuminato dai fari
mentre aspetta chissà cosa o come
l’altro trottola irrequieto
si pavoneggia in movimenti stellari
d’effetto certo ma sterili
se calcando la mano ricade ogni volta
l’uno ha la testa più rotta.

mercoledì 3 aprile 2013

ti lascio morire così, senza ripicca...

Ti lascio morire così, senza ripicca.
Sparisci adesso senza voltarti e porta via
i miei libri, tutte le cose a cui – mi dici –
resto attaccato vilmente, mentre tu – si vede –
non sei attaccata a niente, ti lasci
tutto alle spalle con una bugia.

mercoledì 20 marzo 2013

la valle delle chiese bianche

Erano dodici le chiese bianche che spiccavano dentro la valle. Prima si sono rotti i vetri delle finestre, poi tutte le porte si sono infradiciate e i chiodi si muovevano tra la carne marcia delle assi crocefisse che erano piene di buchi.
Si sono sfatte quell’anno che è piovuto tutta l’estate fino alla prima fiera d’ottobre. L’impalcatura dei chiodi sosteneva pezzi di legno che formavano una trasparenza di ragnatela. Un giorno di gran vento, i chiodi hanno cominciato a volare e non è restata neppure l’ombra delle porte.
Quando gli uccelli si sono messi a fare gazzarra là dentro, l’aria era piena di piume che calavano sul pavimento quasi cadessero dalle ali degli angeli in volo sul soffitto.
D’improvviso una notte, le chiese sono crollate tutte insieme.
Un montanaro che sta sotto Badia alza la mano destra col bastone e ti indica giù nella valle dei mucchi di sassi e calcinacci luccicanti come bava di lumache.

(Tonino Guerra, da Il libro delle chiese abbandonate)

lunedì 18 febbraio 2013

l'amore è una maschera oscena...

L’amore è una maschera oscena che fa le boccacce dai sogni.
Quando ce l’hai ti manca. Quando non ce l’hai ti manca uguale.
In ogni caso è un’assenza più che una presenza ed ha sempre un peso.
L’amore gira intorno alle cose. Ma se le centra qualcosa non torna.
Il vaso colmo si rovescia e l’acqua bagnerà il tappeto.