Che fine ha fatto Antonio Bassano, lo ricordo
l’ultima volta alla fiera del libro, nero nel suo
eskimo da guerra, nell’anonimato senza scampo
dei poeti. Andavamo in cerca di fortuna, e
trovavamo Angiuli, Alborghetti, Oldani, cui
confidavano i nostri primi balbettii. Mi scriveva poi
della raccolta che nasceva con fatica
dalle pieghe del lavoro, sempre puntuale alle dieci
e un quarto la sera, quando sedeva in cucina da solo
e rievocava fra le briciole di pane il profumo
inconfondibile del tempo e dell’onda di Hokusai.
Lo ricordo distrutto dall’amore, ormai perduto
nel silenzio della stanza, poeta di postumo
successo per un libro ormai dimenticato, quando
l’ultima parola è detta e non ancora pronunciata.
Me lo immagino, dopo il trasloco, preda dei suoi orari
e delle sue visioni senza sfogo, la corsa ogni mattina
al tram, il ticchettio dell’orologio, il piacere solitario
del silenzio fino a tarda notte, e poi l’osservazione
dei vicini, dal palazzo di fronte, per tornare a casa.
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