domenica 30 settembre 2018

l'ultima foto dell'estate

crudeltà

Stamattina mi sono fissato sulla crudeltà. Poco fa pensavo a quanto è potente il modo, assolutamente diverso per ciascuno, in cui ogni singolo individuo vede il mondo. Così, sullo stesso pianeta, può capitare che ci sia gente come Glenn Gould, che quando suona Bach è come se stesse suonando l’aria, lo fa con una intensità che è come se riuscisse a farti vedere ogni singolo atomo di bellezza che c’è intorno. E poi c’è gente – lo leggevo ieri – che senza un apparente motivo lega le zampe a una cane, gli infila la testa in un sacco e lo abbandona per strada a morire soffocato. Che, nel mare di cattiveria che c'è oggi nel mondo, uno potrebbe farla facile e dire: “Sono degli imbecilli, oppure, sono degli stronzi!” Ma io aggiungo, anche da stronzi ce l’avranno una visione delle cose. Non riesco a smettere di pensarci, forse perché vorrei ma non riesco davvero ad arrivarci: Che cosa vedono delle persone così? Come lo sentono il mondo?

lillus diabolicus

Mi dicono che sono diventato spietato nella scelta degli autori da pubblicare, che sto falcidiando peggio che se fossi il tristo mietitore in un film dei Monthy Python. Infatti, lo confesso, il mio scopo nella vita è pubblicare soltanto poeti geniali per poi ucciderli (meglio se avvelenati) e vivere da nababbo coi diritti che maturerò dalla pubblicazione delle loro opere postume.

sabato 29 settembre 2018

una foto che mi ha fatto tonio giordano


a jatt’a mégghje

A jatt’a mégghje
fèsce «gnac!» agne demméne
ca vuole díscere «Jí stoche ddò
tuccheme Ci’»
ca vuole ca te mùve pi carèzze.
Ce pièsce aquanne a tucche
riète i rècchje
o minze i jamme – chèra mucettazze! –
i pìgghje u muse ce nan ce dè a dènzie.
Tanne se métte riète a porte
chiangènne «Jí me ne voche, jí me ne voche!»
cume a megghière ca vuole jésse.
O stè ddè modda modde
sópe u tappéte aspettanne
ca scrèsce a sciurnète.
Fèsce a uàrdie a’ chèse e o patrune
cume a patrone ca jè
a jatt’a mégghje.


LA GATTA MIA. La gatta mia | fa «gnac!» ogni mattina | che vuole dire «Io sto qua | toccami Ciccio» | che vuole che ti muovi con le carezze. | le piace quando la tocchi | dietro le orecchie | o in mezzo alle gambe – quella sporcacciona! – | e prende il muso se non le dai attenzione. | Allora si mette dietro la porta | piangendo «Io me ne vado Io me ne vado!» | come la moglie che vuole essere. | O sta lì morbida | sopra il tappeto aspettando | che finisca il giorno. | fa la guardia alla casa e al padrone | come la padrona che è | la gatta mia.

venerdì 28 settembre 2018

ciclostilo

Quanta “nostalgia” può suscitare, se confrontata al nostro modello editoriale (ma ti pago o non ti pago, e tu cosa mi dai?), la Russia comunista dei poeti di Limonov, dove i libri passavano sotto censura e si ciclostilavano i propri scritti in poche copie clandestine da far girare fra gli amici, e il segno più deciso del successo arrivava quando qualcun altro ciclostilava le tue poesie per farle leggere in giro.

domenica 23 settembre 2018

negare sempre

Stamattina mi sono accorto di essere stato ribloggato su un sito del tipo: "Le frasi d'amore più belle" nella sezione: "Le frasi d'amore più belle da scrivere su uno striscione per farsi perdonare un tradimento". Sono rimasto a bocca aperta: sono queste, dunque, le immagini che esprimo con le le mie poesie? Chiassose, eclatanti, un po' smargiasse e in chiara flagranza di reato? E io che ho fatto una fede del motto: "negare sempre, anche di fronte all'evidenza", ora che figura ci faccio?

sabato 22 settembre 2018

vergogna

Mi capita spesso di dovermi scusare, con grave imbarazzo, per l'intemperanza, l'arroganza e talvolta la grettezza di molti poeti con persone semplici che i libri di poesia non li hanno mai letti e dunque non sanno nemmeno di che si sta parlando. I poeti, con la presunzione tipica di chi non conta nulla su questa terra, spesso sono scortesi, inaffidabili oppure, se il soggetto di fronte è sessualmente appetibile, molesti. "Chi cazzo è quello?" mi chiedono le persone semplici. "Lasci perdere, è un poeta" dico io arrossendo e vergognandomi per loro. "E tu, invece, chi cazzo sei?"

venerdì 21 settembre 2018

nipote

Quel giorno in cui ti scrive tuo nipote, che è una vita che ti segue passo passo, e ti dice: "Ho il libro del secolo da proporti". Meraviglioso, dico... "Vedrai, però non te la devi prendere, ha dei toni un po' gogliardici, ma devi essere largo di vedute come sei sempre". Mi devo preoccupare? "No preoccupare, no, però se ti fidi vedrai che spacca! Ti fidi?" Io mi fido. Manda! Mi manda il libro. Titolo: PORCO ZIO. Annamo bene.

intercity

L’altro giorno leggevo Intercity, meravigliosa poesia di Lello Baldini che dà il titolo e conclude la sua ultima raccolta. La poesia col suo solito taglio svagato e fintamente leggero, racconta il tentativo fallito di un uomo di organizzare un viaggio coi suoi amici: l’uomo alla fine prende il treno da solo per accorgersi che sull’intero convoglio c’è solamente lui, unico viaggiatore di quell’ultimo viaggio che chiude il suo lavoro e la sua vita. È il rovesciamento parodico, a mio avviso, della più conosciuta delle poesie di Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso, in cui alla fine di un lungo viaggio in treno, assieme una variegata compagnia di persone che condividono lo scompartimento, il protagonista li saluta uno per uno prima di scendere, perché giunto a destinazione. Per certi versi è una citazione pungente, visto che fu proprio Caproni, quando Baldini vinse il premio Viareggio nel 1988, a contestare quella vittoria, dichiarando che quella usata da Baldini era una lingua “ignota”. In questo caso, la poesia ignota di Baldini è ancora più amara di quella del rivale. Di fronte all’accettazione fatalistica, già quasi nichilistica di Caproni, l’ultimo viaggio di Baldini ci dice che nessuno potrà mai capire com’è indirizzarsi alla morte, perché nella nostra vecchiaia, per quanto rassegnata possa apparirci, noi siamo soli, completamente soli, privati persino di un capotreno, o del macchinista, e per questo, nella sua incapacità di comprendere quella corsa vana verso il nulla, quello spreco – «sono diventati tutti matti? un treno solo per me?» – è il commiato comico di una disperazione insanabile per il destino dell’uomo. 

A parte i due sopra citati, un altro libro che ho letto sui viaggi in treno come "vuoto a perdere" è La vicevita di Magrelli. Mi chiedevo, ce ne sono altri nella poesia italiana? E se sì, me li potete indicare?

lunedì 17 settembre 2018

nella lingua del mio paese...

…Nan ce stè na paruòle pe díscere
chire cose ca t’à sunnéte
ca t’à kjangiute pe tott’a vite
i l’àkkje arriète a demmène jínt’u litte
a lésce poésie ca u sole è jalte
ma tu nan t’azéte – stè ddè a fessè a lúsce
ca sépe d’i mure allattète tanne i tanne.

Trad.:

Nella lingua del mio paese…

…Non c’è una parola per dire
quelle cose che ti sei sognato
che hai rimpianto per tutta la vita
e le ritrovi la mattina nel letto
a leggere poesie che il sole è alto
ma tu non ti sei alzato – stai là a fissare la luce
che ha il sapore dei muri allattati lì per lì.

sabato 15 settembre 2018

se richiamati alla festa

Chi di voi si comprerà Giovanni Laera
chi s’innamorerà di Pietro Gatti
o Lino Angiuli, la terra mia aspra
che bazzica una lingua dura e lenta
che cova silenziosa fra i rovi.
Dove va della poesia voce ch’è morta
alla lingua dei paesani.
E chi di noi farà la storia nel ricordo
dei vivi che vanno all’assalto del tempo
dei poeti, se richiamati alla festa,
ma non sanno più distinguere il minuto
dall’attimo che sfugge, è già perduto.

venerdì 14 settembre 2018

candid camera

Così tanto tempo che non mi arrivava una convocazione per un colloquio di lavoro, che quando oggi me n'è arrivata una ho avuto quasi paura che fosse uno scherzo e continuavo a guardarmi intorno cercando la candid camera.

mercoledì 12 settembre 2018

tutta la roba che mi son scordato

Mi son scordato di quando
mi vergognavo di me
e pisciavo nel buio
nell’orinale
ed era come parlare
il dialetto
mi vergognavo
ch’era il parlare della serva
la vergogna
per quella sua faccia rozza
che non volevo vicino
nemmeno in corriera
quando s’andava al mare
con tutta la famiglia.
Mi son scordato
che ho sparato a un gatto
ch’è andato a morire in un buco
in mezzo all’orto,
che ho fatto un sorriso
ai potenti
ma a Finotti niente
nemmeno una parola
ché io non ero buono
o forse non ci ho badato.
Mi son scordato
persino dei miei nonni
che passavano la domenica da soli
seduti sulla cassapanca
nella loro casa vuota.
Mi son scordato anche del babbo
che se era un disgraziato
mi ha portato
una volta da bambino
per quattro miglia in braccio
in cerca d’una bambola.
E mi son scordato la voce
di mia mamma
che diceva
“te e la puttana che ti ha fatto”
e ora è da scemi se la cerco
nel buio delle stanze
sotto gli specchi
che fan paura la notte
e nei cassetti, fra i panni
nei suoi occhiali
senza una stanga,
nella dentiera
dove si aggrappa a un segno
simile al sangue
ch’è di plastica rosa;
un segno che mi par dire
che io le sono stato lontano
per tutta la vita.

(Nino Pedretti, Al vòusi, Einaudi, traduzione mia)

la luce

Di nuovo mi accorgo, mentre passo e guardo il nuovo bellissimo condominio che sorge di fronte all'Ufficio postale, che ciò che salva davvero le nostre periferie dalla loro disordinata bruttezza è la luce. Questa luce che vibra in ogni cosa e le ravviva. Altrimenti, se togli la luce, e per quanto sia bella la casa, a uno che vive lì cosa resta? La meraviglia del traffico dell'ora di punta su via Alberobello (da una parte)? O l’anonimato senza scampo di via Almirante (dall’altra)? E tutti giurano che il paese è bello. Ma io dico che è la luce che cambia le cose, che le rende migliori. Lo sa bene chi vive lontano. Ma provate a immaginare questo paese (questi paesi intorno) con il cielo perennemente grigio, o bianco, e vi verrà da piangere. Ecco, certi giorni ci penso, e penso che in fondo siamo fortunati ad avere questa luce, e anche che la luce sia di tutti, non si possa lottizzare.

martedì 11 settembre 2018

piero

”Piero era un egoista mostruoso, ma anche un genio. In quel momento l’RCA voleva il monopolio sulla musica e prendeva tutto quello che poteva valere. Io andai da Ennio Melis, dirigente, e mi disse: ma non c’è qualcuno, uno buono, che può valere? Sì, te ne porto uno io… bravissimo, straordinario, eccezionale! E gli raccontai della gran balle. Ma è affidabile? Come no! (Piero affidabile, buonanotte!) Allora arrivammo lì e cominciammo a parlare, lui bravissimo, perché era anche sano in quel momento. Facciamo un contratto, insomma gli feci avere, nel ’64, due milioni e mezzo, una cosa pazzesca d’ingaggio. Gli dissero: passa poi per i soldi, e lui, no no subito! Pretese subito i soldi. Prese i soldi. Uscimmo dall’RCA, Piero mi guardò e disse: Oh Gino, glielo abbiamo buttato nel culo. Prese i soldi, e sparì per tre anni.” 

(Gino Paoli)

lunedì 10 settembre 2018

la ragazza turca

Sei egocentrico? Sì che lo sei – si risponde da sé.
Non sei poetico. E questa è la prima e principale
cosa bella di un uomo. Mi piace l’uso bipolare
che fai delle parole. E come sei capace di dire

con uguale leggerezza «gattina» o «baldracca».
Ma cosa pensi di una donna dalla pelle olivastra
né bianca né schiava ma in cerca di casa di patria
d’Oriente? E che tipo di donna credi io sia?

Ingenua o misteriosa? Curiosa? Distratta? Una
per cui l’amore è talento. Una che non sento
amica. Una che ti dice di sì, così. Vai o resti?
Posso farti una domanda sui tuoi sogni?

domenica 9 settembre 2018

rettifica al post precedente

Contrariamente a quanto affermato nel post precedente, durante il pranzo di famiglia, si parla diffusamente di quando da bambino non facevo che scappare di casa. Sono scappato tre o quattro volte, più due da scuola, un'altra volta mi sono dato fuoco alle mani, un'altra ancora mi sono perforato un piede con un chiodo da cantiere di cui mi rimane la cicatrice, un'altra ancora mi sono spaccato la testa con la bici e mi hanno portato di corsa all'ospedale, un'altra mi sono gettato sotto una macchina in corsa e quasi ci restavo secco. A sette-otto anni mi infilavo già sotto le gonne di una ragazza che veniva a bottega da mia madre. Che cosa sia successo a quel monello non si capisce, ma se vuole tornare alla casa della sua infanzia, dice mio padre, sarà di sicuro per darle fuoco come da bambino non gli è riuscito.

la casa

“C’è sempre un legame fra un artista e la sua casa. Il difficile è individuare quale casa, fra tutte quelle in cui ha vissuto, lo rappresenta fedelmente” scrive Sergio Garufi in uno dei testi che compongono un suo viaggio a tappe fra le case degli autori e che prima o poi prenderà forma (sono convinto) nel suo libro più bello. Questa frase, stamattina, mi ha fatto pensare tanto alla mia prima casa, la più importante, che stava a pochi metri di distanza da quella in cui sto ora, letteralmente dall’altra parte della strada, e che è la casa dove ho vissuto la mia infanzia. Era una casa piccola ma con un bel giardino dietro, e aveva i muri scarabocchiati dai disegni che tracciavo sui muri coi pastelli, nonostante la disperazione di mia madre. Accanto a noi viveva Franco, un omosessuale assai dolce e isolato di cui ho scritto qualcosa in un racconto dell'ultimo libro con Stilo. Ora quella casa non esiste più, abbattuta per far posto a una palazzina, mentre la casa di Franco è abbandonata in mezzo a un complesso di trulli, abbandonati anch’essi, che pian piano cedono il passo all’incuria. Se potessi li comprerei domani stesso, per riattraversare la strada e tornare ancora più vicino a quel luogo dove sono stato bambino. Vai a capire quali sono i motivi inconsci di tanto attaccamento a quel periodo e a quel luogo. Fatto sta che secondo me ci sono due tipi di scrittori (o di persone), quelli che sognano di uscire fuori a vedere il mondo, e quelli che invece non fanno altro che cercare un modo per rinchiudersi ostinatamente nel proprio guscio. Io, è evidente, appartengo a questo secondo gruppo, ma per quanto mi sforzi non ho ancora trovato il modo per sparire per sempre nel mio.

sabato 8 settembre 2018

l'arte della guerra

Quella volta che il cane dei vicini abbia così forte dalla strada che il mio gatto, che brilla più per simpatia che per coraggio, riesce a salire fino al quinto piano della libreria per barricarsi dietro i mattoni collaudati. Lo guardo e mi viene in mente la battuta di Totò che chiude Totò contro Maciste. Nino Taranto gli chiede: "Mi sai dire chi ti ha dato la forza di fare quei salti?" e Totò risponde: "Il coraggio della paura!"

due mondi

Non so a voi ma a me, forse per deformazione professionale, succede questa cosa qui, qualcosa di simile al Nick Hornby di Alta fedeltà. Tutte le volte che voglio scaricare una persona, mi parte automaticamente nel cervello come una sorta di playlist dei pezzi che lego alla mia storia con quella persona. Ogni volta le tracce cambiano in base alle persone, ma l’ultima è sempre Prendila così di Battisti, che mi dà la giusta energia malinconica necessaria all’occasione. Io parlo con la persona che ho di fronte e nella mia testa parte quel bellissimo sax finale che mi aiuta sempre a trovare le parole giuste, le più delicate o intelligenti o paracule, per dirle: “Vabbè, ciò che è stato è stato, ma ora è finita”. Siccome succede a me e succede a Nick Hornby, a un certo punto ho cominciato a convincermi che succedesse anche agli altri. Del resto ognuno di noi lega certi momenti a delle particolari canzoni, qualcuno lo fa a posteriori, mentre a qualcun altro magari succede in diretta. Anzi, a un certo punto, più ancora che lasciarsi, la parte interessante della faccenda era cercare di capire su che colonna sonora era sintonizzata l’altra persona rispetto a te che le stavi di fronte. Perché una cosa se tu sei sintonizzato su Battisti e dall’altra parte canta Mina (L’importante è finire), un’altra è se contro Battisti ci sono gli Skiantos (Non ti sopporto più!). Una volta mi è capitato di frequentare una ragazza appassionata di musica molto più di me, con cui poi siamo rimasti amici. Lei, mentre la stavo lasciando, mi fissava senza fiatare ma intanto – mi ha rivelato poi – le suonava nella testa Disperato Erotico Stomp di Lucio Dalla. Io le dicevo “prendila così, non possiamo farne un dramma”, e lei mi guardava e pensava a me il giorno dopo, tutto da solo a casa, quando “steso sul divano è partita la mia mano”, e a un certo punto le ho fatto così tanta pena che mentre la stavo lasciando mi ha abbracciato forte e mi ha detto: “Vedrai che anche tu prima o poi troverai la persona giusta!”

venerdì 7 settembre 2018

due dialoghi estratti dal consiglio d'egitto di leonardo sciascia

DON SAVERIO: Prosa o poesia, se sono corna, corna restano. 
MELI: Voi però siete all’antica, lasciatemelo dire: fate ancora caso alle corna. 
DON SAVERIO: Anche voi, no? 
MELI: Sarà perché noi non siamo sposati. 
DON SAVERIO: Questa è buona. 
MELI: Sì, sarà senz’altro quella la ragione: non abbiamo moglie. 
DON SAVERIO: E in fondo, il nostro moralistico prurito è una cosa falsa, no? Se gli altri sono cornuti, lo sono per il nostro spasso… Forse che non ve la spassate anche voi? 
MELI: Non proprio come intendete voi lo spasso… 
DON SAVERIO: Non ci sono due modi d’intenderlo: una donna o ve la mettete sotto o è meglio non la guardate nemmeno… Se io dovesi credere che quelle labbra che cantate, voi, in qualche angolo di villa, non ve le succhiate; che il petto di una certa signora e il neo di un’altra non li palpeggiate a vostro talento, in reconditi luoghi… Ebbene, vi direi: siete un disgraziato. 
(Meli sospira). 
DON SAVERIO: No, non vi chiedo di farmi delle confidenze, mi basta credere che voi avete denti ed appetito da approfittare dei biscotti che la provvidenza vi manda… Mi basta crederlo: per ammirarvi come poeta, per rispettarvi come uomo. 
MELI: Voi della poesia avete un’idea da commercio dei grani… 
DON SAVERIO: Ne ho, per la verità, un’idea molto diversa: ma conoscendo voi… 
(Scoppia a ridere, ride anche il Meli). 
DON SAVERIO: Sto scherzando. 
MELI: Lo so.
*** 

(Parlano dell’avvocato Di Blasi, amico di Meli, appena arrestato per congiura contro la Corona).
PRINCIPE DI TRABIA: E voi credete che lui l’amasse, la poesia? Che in un cuore nero come il suo ci fosse posto, per l’amore alla poesia? 
ABATE CARÌ: L’amava. 
PRINCIPE DI TRABIA: Vecchio rimbambito. 
MELI: Eh, no, caro abate, ora possiamo ben dire, come giustamente osserva sua eccellenza, che non amava la poesia, che non poteva amarla: era tutta polvere negli occhi; negli occhi degli ingenui come me… 
ABATE CARÌ: Voi, non l’amate. 
MELI: Io? Io non amo la poesia?... Ma l’avete sentito, il vecchio scimunito? Io la poesia la faccio, e se ne parlerà, della mia poesia, quando del vostro nome non ci sarà più traccia nemmeno sul marmo che vi metteranno sopra da morto.

giovedì 6 settembre 2018

arminio e l’assalto alle librerie

Leggo che Arminio per il 15 vuole lanciare un assalto alle librerie, cioè scatenerà il suo pubblico verso gli scaffali di poesia delle librerie per convincerli a comprare uno o più libri, e se svuotate gli scaffali allora dimostrerete che la poesia si può vendere. Io resto perplesso di fronte a simili azioni. Non posso negare che potrebbero avere un certo richiamo mediatico – e Dio solo sa quanto ogni cosa (ogni più piccola cosa) serva al settore – ma continuo a chiedermi a chi giova una azione così? A me e tanti piccoli editori come me che fanno fatica a essere presenti nelle librerie, soprattutto in quelle di catena, a nulla o quasi. Ai lettori di poesia, che la poesia già la comprano per fatti loro, non cambierà la vita in nessun modo. Ai non lettori di poesia che lo fanno solo per Arminio nemmeno, perché andranno lì senza avere dei mezzi critici adeguanti, e senza sapere cosa di preciso gli “serve” finiranno per comprare il solito classico usato sicuro (Leopardi o la Dickinson), il libro sdoganato dai media (la Szymborska, la Merini, Cento poesie d’amore a Ladyhawke) o al massimo qualcuno di ancora vivo sulla bianca Einaudi, o sullo Specchio o sugli Oscar Mondadori, confidando nel marchio. Nemmeno serve troppo ad Arminio, perché credo che quelli che lo seguono già li comprino i suoi libri senza bisogno degli assalti. Mi chiedo, allora, quanti andranno lì chiedendo Tomada o Amendolara o Cremonte o Cattaneo, quelli che se vai in Feltrinelli non li conosce nemmeno il commesso, ma sono bravi, bravi davvero, solo che devi scavare per trovarli, e quando poi li trovi non li lasci più andare. Certo non è colpa di Arminio, che a modo suo ci prova. Eppure io di Arminio mi ricordo una sera a Cisternino che passeggiavo con lui e con un bambino figlio di amici, e lui guardando il cielo e la luna piena cominciò a recitare per noi, a memoria, versi di Stella Variabile di Sereni con una cura, come se reggesse fra le mani un uovo delicato che ci porgeva, quella cura che è frutto dell’amore. Fu un momento di grande intimità, e allora mi dico, ma se invece di progettare assalti alle librerie, che sono gesti appariscenti, belli da sentire, ma di fatto cambiano poco le cose, se facesse sempre così, se a ogni incontro, oltre a cantare col pubblico, recitasse a suo piacere Sereni o Caproni o Scotellaro o Pietro Gatti o chi gli pare, e poi chiedesse: «Lo conoscete Scotellaro? No? Ora ve lo racconto a modo mio», quanto bene che farebbe alla poesia, quanto bene a chi lo segue.

se giovanni è morto

Dopo la censura del film di Allen, il secondo gossip della settimana riguarda la poetessa Giovanna Cristina Vivinetto, nota per aver scritto un libro poetico, Dolore minimo, incentrato sulla sua vicenda di transgender. Avendo partecipato a un premio di poesia, il Solstizio Opera Prima promosso dall'associazione Libero De Libero, ed essendo arrivata fra i finalisti, è stata in ultimo squalificata perché si è scoperto che in precedenza, prima cioè dell’operazione, aveva già pubblicato due libri a nome di Giovanni Vivinetto, l’uomo che fu e in cui più non si riconosce. Lei è insorta, con tanto di legali, contro la decisione, dicendo che ciò che fu scritto da Giovanni non è più di Giovanna e viceversa, questione che va oltre i rigidi regolamenti di un premio. In sostanza, la domanda sollevata è: chi è l’Autore e chi è la persona? Coincidono? Io personalmente le ho sempre sviscerate come identità, perché credo che l’Autore vada oltre la persona, da cui attinge sì esperienze ma che poi rielabora in base a un intuito di cui non sempre la persona che lo ospita è cosciente (ciò che talvolta viene chiamata Musa oppure Genio): i rari momenti in cui l’Autore e la persona coincidono, ovvero la persona esprime in ogni gesto, parola, sguardo, la visione più profonda dell’Autore, sono quelli in cui, come diceva Nietzsche, l’uomo guarda nel baratro che guarda l’uomo, situazione insostenibile che a lungo andare rischia di distruggerlo. Questa dualità è anche il motivo per cui, spesso, molti grandi geni dell’arte sono poi state persone sgradevoli, sciatte o anonime. Ecco, mi pare di capire, dalla vicenda sollevata dalla Vivinetto che lei, e chi con lei, sostengano l’opposta posizione – legittima! – quella per cui Autore e persona coincidano perfettamente, motivo per cui, morto Giovanni (se Giovanni è morto), muore anche tutto ciò che ha fatto l’autore in Giovanni, e venuta alla luce Giovanna, ne viene fuori con lei una nuova autrice che, coincidendo in tutto e per tutto con la sua persona, ne ricalcherà la vita fin alla fine. Peccato dunque, perché si è persa una grande occasione di discussione su temi che sono dunque eterni (paternità o maternità dell’opera, coincidenza fra vita e arte, identità dell’Autore, ecc.) che proprio la vicenda della Vivinetto, negli ultimi mesi, sta rinfocolando con grande vivacità.
(A parte questo, però, trovo che se ognuno ha il diritto di difendersi con le unghie e coi denti se si sente minacciato, non si può, prima ancora che venga diffuso un comunicato ufficiale che puntualizzi i motivi della decisione, partire in quarta con una campagna mediatica in cui, basandosi praticamente sul nulla (parole riferite di una telefonata), si aizzano delle persone contro l’associazione del premio (i cui dubbi erano legittimi), e trasformandola in una battaglia per i diritti dei transgender. Da qualsiasi punto di vista la si guardi, è una mossa impulsiva e poco elegante, perché si scherma dietro i problemi di chi subisce discriminazioni costanti e non ha alcun libro di successo da promuovere, né la consolazione di un premio alla fine della querelle. A meno che ovviamente non ho capito io, e in quanto loro portavoce, l'autrice devolve i premi alla comunità LGBD italiana).

mercoledì 5 settembre 2018

il trionfo del kitsch

È da alcuni giorni che gira la notizia che forse non vedremo mai (di sicuro non per molto tempo) l’ultimo film di Woody Allen, A Rainy Day in New York, perché trattando della storia d’amore fra una minorenne e un uomo maturo, la stessa da lui trattata nell’amatissimo Manhattan, non è conforme agli standard sulla pura asetticità del desiderio promossi dal movimento #MeToo, che era nato per evitare molestie sul lavoro contro le donne ed ha finito per diventare movimento d’opinione sui contenuti artistici di un’opera che, se sono politicamente scorretti, viene immediatamente censurata. Così #MeToo ha scatenato un vespaio contro Allen e il distributore del film si è tirato indietro. A periodi, negli Stati Uniti torna questo clima da caccia alle streghe, in cui si riversa il peggio del puritanesimo che impregna la loro cultura, lo stesso clima che Allen denunciò in un film bellissimo come Il prestanome. La parte più interessante della questione però è un’altra. Non si sta boicottando Allen per i contenuti del suo film presi in se stessi – che da ciò che ho capito sono stati sviluppati in chiave drammatica, la stessa che ha dato origine a pellicole come Match Point, Blue Jasmine o Irrational Man – ma perché, avendo egli sedotto la figliastra della moglie, Soon-Yi Previn, si è subito messa in relazione quell’esperienza con il film, ovvero non si riesce minimamente a considerare che i contenuti dell’opera possano essere sviscerati dal vissuto del suo autore, per cui se il film parla di amore con minori e l’autore ha avuto una storia con una minore, allora il film per induzione parla della storia dell’autore ed è intollerabile che se ne faccia un film. È una considerazione critica talmente bassa, mediocre, anche considerando che viene da persone che lavorano nel mondo del cinema, ovvero della finzione, che mi lascia basito. È la negazione assoluta dell’arte come astrazione narrativa, che porta a universalizzare il contenuto, sia pure nato da un vissuto, per farne un’opera, e in cui invece si ribadisce a oltranza l’idea piccolo borghese che l’opera è unicamente il frutto di una confessione intima, la pagina di diario dell’uomo qualunque, dove l’elaborazione concettuale e la formale sono orpelli e chiunque può dire la sua, e se quello che dice è “carino” allora è già arte. Ma, se non è “carino” per nulla allora è osceno e censurabile. Proprio quello che Kundera aveva definito – ne L’insostenibile leggerezza dell’essere – il trionfo del kitsch.

martedì 4 settembre 2018

sangue sulle parole

L'altro giorno al Terracina Book Festival, mentre sistemavo i libri sul nostro tavolo mi sono tagliato un dito e nel ho sporcati alcuni di sangue. Poco dopo si è avvicinata una ragazza e mi ha chiesto di poter acquistare una di quelle copie. "Ma sei sicura?" le ho detto, "te ne do una pulita". Ma lei: "Vuoi mettere avere una copia del libro bagnata dal sangue del suo autore?". "Di quello ce n'è già dentro a litri" le ho detto. Ma ha insistito per acquistarlo, perché il rosso sul bianco della copertina spicca di più di quello spillato fra le parole. Come mi ha suggerito poi Francesca Santucci, probabilmente lo sta già usando per clonarmi.

lunedì 3 settembre 2018

venere in panciolle

«amore che fai dolce chi aspro era,
mi hai tolto il sonno, il senno, che altro vuoi?»
J. Rodolfo Wilcock

Amore che fai e chi altra eri
tu che m’hai tolto il sonno
cullandolo nei desideri
della tua pienezza solitaria
e bianca e l’hai chiuso di là
nell’altra stanza?
.............................Accanto
sento lieve il tuo soffiare
rincorrermi e chiamare con
lunghe fusa al muro per chiedermi
di dimostrare una buona volta
l’uomo che sarei con più arditezza
quello che attraversa il corpo
e il corridoio da bravo ladro
silenzioso e scaltro.
Ma quello anima mia è un altro
l’uomo che sarei se fossi
un’altra tu che mi confondi.
Amore che fai in quest’alba mite?

«Dormo di là in panciolle
indifferente e molle (come Afrodite)
e non m’interrogo di te di niente
nemmeno del temporale estivo
scoppiato nella stanza di fronte».