“C’è sempre un legame fra un artista e la sua casa. Il difficile è individuare quale casa, fra tutte quelle in cui ha vissuto, lo rappresenta fedelmente” scrive Sergio Garufi in uno dei testi che compongono un suo viaggio a tappe fra le case degli autori e che prima o poi prenderà forma (sono convinto) nel suo libro più bello. Questa frase, stamattina, mi ha fatto pensare tanto alla mia prima casa, la più importante, che stava a pochi metri di distanza da quella in cui sto ora, letteralmente dall’altra parte della strada, e che è la casa dove ho vissuto la mia infanzia. Era una casa piccola ma con un bel giardino dietro, e aveva i muri scarabocchiati dai disegni che tracciavo sui muri coi pastelli, nonostante la disperazione di mia madre. Accanto a noi viveva Franco, un omosessuale assai dolce e isolato di cui ho scritto qualcosa in un racconto dell'ultimo libro con Stilo. Ora quella casa non esiste più, abbattuta per far posto a una palazzina, mentre la casa di Franco è abbandonata in mezzo a un complesso di trulli, abbandonati anch’essi, che pian piano cedono il passo all’incuria. Se potessi li comprerei domani stesso, per riattraversare la strada e tornare ancora più vicino a quel luogo dove sono stato bambino. Vai a capire quali sono i motivi inconsci di tanto attaccamento a quel periodo e a quel luogo. Fatto sta che secondo me ci sono due tipi di scrittori (o di persone), quelli che sognano di uscire fuori a vedere il mondo, e quelli che invece non fanno altro che cercare un modo per rinchiudersi ostinatamente nel proprio guscio. Io, è evidente, appartengo a questo secondo gruppo, ma per quanto mi sforzi non ho ancora trovato il modo per sparire per sempre nel mio.
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