giovedì 31 dicembre 2009

per chiudere l'anno in bellezza

E per chiudere l’anno in bellezza uno dei miei pezzi preferiti che però, dato il contenuto, tiro fuori dalla manica solo nelle grandi occasioni, e questa mi sembra una grande occasione. Fra pochi giorni ne compio 33, comincia il mio periodo messianico in cui me ne andrò in giro per le piazze a diffondere il verbo, e cioè che l’amore è la risposta. Perlomeno l’amore degli altri. A Pasqua poi mi crocifiggeranno sul cupolone della chiesa del Luogo Rotondo e più che a Gesù mi vedo simile a Villaggio nel secondo tragico Fantozzi. Per intanto godiamoci la canzone. L’ha scritta Frank Sinatra nei primi anni ’50, ispirato dalla sua tormentata relazione con Ava Gardner, e devo dire che solo per questa, se anche non avesse fatto nient’altro, meriterebbe di entrare negli annali della musica mondiale. È un brano bellissimo e triste e sincero fino alla follia, appunto. Nessuno vorrebbe mai viverle delle storie così eppure, senza, un artista poi di cosa scriverebbe? Come potrebbe mai esprimere al massimo il proprio sentimento? Inappagato, Sinatra ci fece un intero album di canzoni così, che molti considerano il suo capolavoro e intitolato In the wee small hours, da ascoltare solo se si ha il cuore tormentato dalla notte. Conosco bene la sensazione, perché l'ho vissuta a lungo. E infatti anche il mio libro è pronto. Ora devo solo trovare un editore. Il nuovo anno comincerà per me all’insegna di una ricerca, non proprio spirituale ma va bene così.
Ava Gardner disse di quella storia: “È stato l’amore della mia vita. A letto eravamo grandi. Era sulla via del bidet che di solito cominciavano i problemi.” I'm a fool to want you dice in fondo le stesse cose in maniera un po’ più romantica. Questa qui sotto è una versione del 1957. Mentre ve ne linko qui un'altra altrettanto bella, più bluesy, di Billie Holiday. Meglio l’anno non poteva finire. Se poi vi chiedete se ci sono secondi fini o messaggi subliminali nelle mie scelte musicali (come in effetti mi è stato fatto notare) beh io vado a istinto. Magari sarebbe più utile rivolgersi al dottor Freud, no?



SONO UN PAZZO A VOLERTI

Sono un pazzo a volerti
Sono un pazzo a volerti
A volere un amore che non può essere vero
Un amore che è lì anche per altri
Sono un pazzo a tenerti
Così pazzo a tenerti
Per chiedere un bacio che non è solo mio
Per condividere un bacio che il diavolo ha conosciuto
Tante e tante volte ho detto di lasciarti
Tante e tante volte sono andato via
Ma poi arriva il momento che ho bisogno di te
E una volta ancora devo ripetere queste parole
Sono un pazzo a volerti
Abbi pietà, ho bisogno di te
So che è sbagliato, deve essere sbagliato
Ma giusto o sbagliato non posso andare avanti
Senza te

lunedì 28 dicembre 2009

carver e il mostro a due teste



Pensavo a Raymond Carver. Ultimamente, com’è solito per i grandi, è tutto un ritorno alla sua opera, con una nuova operazione di mercato tesa al recupero dei suoi testi originali. Operazione che in sé ha qualcosa di nobile e insieme di ambiguo, se si considera che sono state proprio le leggi di mercato a creare il caso Carver.
Oggi che gli si riconosce d’essere stato lo scrittore americano più influente del secondo ‘900 e il più grande del secolo con Hemingway, leggendo le sue biografie viene quasi fuori come una vittima inerme di Gordon Lish, il suo editor. Se non fosse che fu proprio Lish a consentirgli di pubblicare con delle grandi case editrici e quindi arrivare al grosso pubblico in maniera tale da potersi far notare e diventare economicamente indipendente. E poi Lish, al di là di tutto, come editor era bravo, aveva talento e fiuto. Il fatto che, con tutto il suo fiuto, avesse capito che Carver era bravo, uno su cui investire, ma non che fosse un vero genio, per cui si permetteva di trattarlo come qualsiasi altro scrittore, non è di per sé una colpa. Carver lo lasciava fare perché, nonostante la sofferenza e l’umiliazione provate nel vedere il proprio lavoro fatto a pezzi dalle revisioni talvolta brutali di Lish, disperazione che si può ben leggere nelle sue lettere, la possibilità di venire pagato per il proprio lavoro era più forte. Certo, ha guadagnato più il mercato con Carver che non viceversa, e Carver preso in questa contraddizione fra arte e necessità è rimasto schiacciato, ma Lish più che un sadico aguzzino, come viene spesso descritto, era la norma con un pizzico di gusto in più. Tutto il sistema editoriale, confessa chi ci lavora, quasi a giustificare i propri metodi, ubbidisce a queste leggi, e il caso Carver è venuto allo scoperto e sembra starsene lì come una pianta grassa nel deserto, solo perché Carver è diventato, per una serie di casi fortunati, più grande del mercato.
E questo ci riporta a oggi che il mercato fa mea culpa nei suoi confronti. Rispuntano le edizioni originali dei suoi lavori. Poiché però c’è un interesse filologico nella cosa è possibile trovare, accanto agli originali, anche i racconti rimaneggiati da Lish, a cui a questo punto andrebbe riconosciuto insieme a Carver il ruolo di padre del minimalismo americano. Fare un confronto fra i racconti prima e dopo il suo intervento è davvero una cosa interessante. Non so se riesco a spiegarlo, è sempre una questione di sfumature, ma nei racconti originali di Carver ci senti l’aria intorno ai personaggi, un’aria densa e calda, immobile. Con Lish tutto diventa più freddo, più asettico, come se quest’aria fosse stata tagliata con un bisturi di precisione, tutto ripulito per bene e gettati via gli scarti. Non c’è abbastanza aria da riempirti i polmoni. Il risultato è così intenso da aver modificato l’idea stessa di scrittura narrativa e, se non fosse stato il frutto di una sopraffazione, si potrebbe tranquillamente considerare il lavoro a quattro mani di due autori a confronto. Lish non era un idiota, aveva una visione poetica simile a quella di Carver ma più dura, ma gli mancava la grandezza necessaria a realizzarla da solo e così si imponeva con brutalità all’altro, che trattava un po’ come un facchino. Carver faceva il lavoro sporco, scrivendo le storie e Lish le rifiniva a modo suo, cioè togliendo ad arte quanto più respiro poteva all’opera. Solo con Cattedrale, quando sentì di aver scritto il suo capolavoro ma era anche abbastanza famoso da potersi permettere delle alternative, Carver trovò la forza per liberarsi di lui e dare spazio alla propria creatività.
L’ambiguità a cui accennavo sopra deriva dal fatto che se il mercato, anche se con interessi economici, riconosce la necessità di ripubblicare il materiale originale di Carver, che proprio il modello di revisione editoriale teso esclusivamente alla vendita aveva modificato, di contro è come se ammettesse la propria estraneità e fondamentale indifferenza al mondo della Scrittura. Ma poi, ammettendo pure che Carver era un genio ma non necessariamente un unicum, uno che operava nel mondo della Scrittura ed è stato inglobato dal mondo dell’Editoria, e che il mercato pur investendo in lui non ha saputo (o voluto) riconoscere e valorizzare il suo talento e quindi, maltrattandolo dal punto di vista creativo come ha fatto attraverso Lish, ha contribuito alla sua depressione e all’alcolismo, ammettendo tutto questo il mercato della Cultura che ci sta intorno e ci permea non svela anche, ironicamente, che le leggi su cui basa la nostra esistenza sono del tutto amorali?

venerdì 25 dicembre 2009

fantasmi del natale

Sapete, sarà perché sono uno scrittore e guardo il mondo con degli occhi particolari, ma penso che a volte può capitare di ritrovarsi in situazioni che, sebbene sembrino prese pari pari da un libro, ti accadono come se fossero le più naturali del mondo, con la differenza che noi, non essendo degli eroi di carta, spesso non sappiamo come comportarci e falliamo su tutta la linea nel cogliere le occasioni che il caso ci offre, con delle varianti da persona a persona, determinate dal grado di dignità che riusciamo a mantenere.
A me una cosa così è capitata poche ore fa, quando mi sono ritrovato, proprio come nel famoso Canto di Natale di Dickens, di fronte al fantasma del mio passato. E, per quanto mi fossi sognato questo incontro per mesi, pensando a una qualche sorta di rivelazione che avrei avuto o frase storica che avrei pronunciato o a una nuova magia che sarebbe scoccata fra noi, non è successo un bel niente. Mi sono ritrovato lì, davanti al mio fantasma senza nulla da dire e senza nessuna volontà di avere un contatto, abbracciarlo o sorridergli, fare anche solo un gesto che potesse fargli intendere come mi sentissi. In effetti non lo so neanch’io come mi sentivo, i fantasmi sono brutte creature anche per questo. Di una cosa però sono sicuro. Non mi ha cambiato né in meglio né in peggio. Mi ha solo turbato e tanto, ma senza vere rivoluzioni.
E il punto è proprio questo: a che serve rivedere un fantasma se l’incontro non si trasforma in nient’altro che un semplice scambio di saluti? Dickens su questo è stato chiaro e aveva ragione secondo me. Il tormento interiore che necessariamente comporta la prova a cui ci si sottopone deve avere come risultato la possibilità di migliorarsi, di poter sciogliere dei nodi per giungere a uno stato più alto di consapevolezza e quindi a un momentaneo sollievo se non proprio a uno stato di felicità. Altrimenti non ha senso farsi tutto questo male. Meglio restare un po’ più poveri ma ignari di quanto è profonda la nostra infelicità. Così la prossima volta, se mi ricapita, credo che dovrò impegnarmi di più oppure evitare l’incontro. E intanto mi chiedo cos’ha provato il fantasma in questione a rivedermi perché in fondo, mi dico, sono stato il suo fantasma reciproco.



And no one knows where the night is going
And no one knows why the wine is flowing
Oh love I need you I need you I need you I need you
Oh I need you now

martedì 22 dicembre 2009

la canzone perduta: un'idea per un regalo da farmi a natale

Come sempre succede tutte le volte che faccio ascoltare l’amato Piero Ciampi a qualcuno, quel qualcuno poi mi chiede di passargli qualcosa. È successo anche ieri sera con un amico. E quando gli ho risposto con la mia solita nonchalance “ok, va bene” e lui mi ha chiesto “ma perché, tu cos’hai?” io, come ogni volta che mi succede, gli ho risposto “tutto, meno una canzone”. Infatti, se provate a scaricare la sua discografia, e dico scaricare perché comprarla non è possibile in quanto in giro ci sono solo due suoi dischi ristampati in cd e qualche raccolta che ripropone sempre gli stessi pezzi, riuscirete a trovare tutto quel che c’è meno quella canzone. La discografia di Piero Ciampi è davvero esigua, in tutto una sessantina di brani registrati nell’arco di vent’anni. Di quelli in cd l’album più accessibile e rappresentativo del suo mondo poetico è il secondo, intitolato semplicemente Piero Ciampi. L’ultimo dei suoi dischi invece, Dentro e fuori, è una lunga e rarefatta discesa verso “l’assenza” che si concretizzerà di lì a poco, nel 1976, con la sua definitiva uscita dal mondo del mercato musicale. Ma la canzone perduta di cui dicevo sopra appartiene invece al terzo dei suoi dischi, Io e te abbiamo perso la bussola, la cronaca dura, sincera e disperata della fine del suo matrimonio e uno degli autoritratti più riusciti della canzone d’autore italiana. Non solo, da un punto di vista sociale le problematiche affrontate dal disco andavano a toccare con mano i nervi scoperti di una nazione che cominciava a fare i conti con la propria coscienza: era infatti il 1973 e si era alle soglie del fondamentale referendum sul divorzio. Non scordiamo che nello stesso anno, sempre Ciampi scrisse e produsse per Nada il suo primo disco “serio” che si intitolava, significativamente, Ho scoperto che esisto anch’io. Il terzo disco di Ciampi, il suo capolavoro, è così grande che a mio avviso lo si può paragonare solamente a Berlin di Lou Reed, disco uscito nello stesso anno e che guarda caso affronta lo stesso tema nello stesso modo. Ma se l’album di Reed sul mercato americano fece perlomeno scandalo, quello di Ciampi fu bellamente ignorato. Tanto che nessuno ha mai ritenuto necessario ristamparlo in versione digitale. Entrambi i dischi trattano di una situazione reale che proviene direttamente dal vissuto dei due artisti e che viene trasfigurata artisticamente in una metafora dell’incomunicabilità, dell’infelicità e della solitudine umana. Quella di Reed ha un taglio europeo e maledetto, quella di Ciampi invece è più italiana, drammatica ma con delle punte di ironia disarmante, assurda e impagabile che splendono nel buio come fari. Altra nota in comune, entrambi ambiscono a raccontare la loro storia con un taglio molto cinematografico, come se fosse un film sonoro e, a mio avviso e con tutto il rispetto per Bob Ezrin, produttore di Berlin, il lavoro di Ciampi riesce in questo addirittura meglio di quello di Reed, grazie alla collaborazione di Gianni Marchetti che, in virtù della sua esperienza come autore di colonne sonore, ha arrangiato e prodotto il disco proprio con le sfumature tipiche di quel genere musicale. Su questo tappeto sonoro così inusuale per un’opera cantautorale il quasi recitato di Ciampi si dispiega in otto lunghi capitoli (la lunghezza media dei brani si aggira intorno ai cinque minuti) per raccontare il proprio disagio esistenziale di uomo e di artista, il suo fallimento come marito, la mancanza di lavoro, lo sfascio del suo matrimonio, la separazione con conseguente allontanamento dei figli, concludendosi col lungo e scalcagnato canto ubriaco di Io e te Maria, quasi il sogno a occhi aperti di un’impossibile felicità. Prima di quest’ultima traccia, nel disco originale, c’era un pezzo intitolato Tu con la testa, io con il cuore che, nella maniera più lucida possibile (almeno stando al testo) cercava di imporre ai fatti narrati quasi una logica, di offrirsi dei motivi che potessero giustificare tanto dolore. Il canto disperato di Io e te Maria a questo punto avrebbe dovuto annullare quanto esposto poco prima per ricordare a se stesso che l’unico rimedio possibile contro il dolore è il vino, l’illusione. La mancanza di questo penultimo brano in parte diminuisce l’impatto in effetti assai commovente dell’ultima canzone del disco. Io lo ripeto, per me è introvabile, ma se qualcuno ce l’ha o riesce a trovarlo lo prego di contattarmi per passarmelo, magari come regalo di natale. Nella mia discografia, che credo sia ragguardevole, l’ho inserito in una minuscola lista di dischi storici ma evanescenti che spero un giorno di riuscire a procurarmi e in cui Piero Ciampi sta seduto proprio accanto al Neil Young di Time fides away e, se posso dirlo, ci sta seduto degnamente.

giovedì 17 dicembre 2009

in memoria

L’ultima volta che l’ho visto se ne stava disteso su uno scoglio, un po’ imbronciato con le mani dietro la testa e la pistola nella fondina. Poi ne ho sentito parlare una trentina di tavole dopo e se controllo la data sulla copertina della rivista non riesco a crederci: era il settembre del 1991. In quella tavola c’era questo suo amico/nemico, il suo antagonista di sempre, che diceva di lui: “Beh, è l’unico di cui non mi preoccuperei. Riuscirà sempre a farcela. È indistruttibile…” poi più nulla per quasi vent’anni. Fino a stamattina che accendendo la tv mi sono ritrovato a guardare un servizio di Gianni Bisiach sull’uomo da cui Hugo Pratt trasse il suo nome, il monaco nero Rasputin, di cui oggi 17 dicembre cade l’anniversario della morte, e a me è tornato in mente quel giorno di settembre del 1991 che lessi di lui e non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta. A saperlo gli avrei fatto almeno un brindisi da marinaio, gli avrei detto addio con più attenzione. Ho sempre avuto una forte simpatia per il personaggio di Rasputin, uno che non ci metteva nulla a spararti se non gli servivi ma che poi si scopriva avere un suo codice d’onore tutto speciale, e poi un’ironia unica, di un cinismo assoluto. Tanto che, come Pratt ha preso il suo nome dal monaco nero, io ho preso da lui il mio per questo blog. Come fanno i bambini che cambiandosi il nome cercano in qualche modo di avvicinarsi al personaggio a cui vogliono più assomigliare.
Dal 1991 è passato un sacco di tempo. Molte cose sono cambiate. La morte ha fatto il suo bravo lavoro intorno a noi. E quello che non ha fatto la morte spesso ha fatto la distanza, una morte minore. La rivista su cui ho letto quell’ultima avventura ha chiuso i battenti nel 1993. Hugo Pratt è morto nel 1995. E quel particolare romanticismo di cui tanto spesso ci aveva raccontato per un attimo ha rischiato di finire con lui, o peggio di finire mutilato nell’orrido tritacarne delle mode da un’estate.
Del monaco nero Rasputin si può dire tranquillamente che fu un mistero fattosi carne. E per ucciderlo, se andate a guardare, ce ne volle eccome. Dovettero avvelenarlo, sparargli, bastonarlo, buttarlo in un fiume e poi dargli fuoco perché tirasse le cuoia. E a me piace pensare che, per il potere sciamanico conferito dall’assunzione di un nome, anche il personaggio Rasputin dei fumetti viva ancora immortale, indistruttibile, navigando assieme al suo amico/nemico di sempre e col suo ghigno strafottente sotto i baffi, nei nostri sogni di pirateria.

lunedì 14 dicembre 2009

considerazioni sul pestaggio di berlusconi

Ieri avevo mal di testa per cui, pur rammaricandomene, sono riuscito a prestare poca attenzione al pestaggio del presidente del Consiglio. Nondimeno non mi sono sfuggite alcune delle dichiarazioni che per tutta la serata hanno condito i vari Tg, FB oppure i blog a tema politico di alcuni amici. Tutti solidali al presidente, tutti contrari agli atti di violenza eppure tutti convinti che quello che è successo era inevitabile dato il clima politico che sta lentamente spaccando in due l’Italia, fra fanatici e oppositori del berlusconismo.
Certo il viso del presidente insanguinato, col dente rotto e gli occhi lucidi è un’immagine che desta impressione in chiunque. Non solo come può farlo quella di una qualsiasi vittima di guerra. Mette sgomento addosso perché è in sé l’immagine di un attacco al potere. È un qualcosa che molti sognano ma pochi sono in grado di affrontare concretamente. Se quel tizio ieri, Tartaglia, invece di lanciargli in faccia un souvenir gli avesse sparato, oggi l’Italia sarebbe nel caos più totale. Tanto che qualcuno ha parlato di attentato “terroristico”.
La polizia smentisce però, attribuendo il gesto a un pazzoide. Ecco, a me, sulla parola “pazzoide” è venuta in mente una striscia a fumetti pubblicata negli Stati Uniti agli inizi del ‘900 e intitolata Krazy Kat. La striscia era semplicissima: rappresentava il rapporto un po’ stralunato fra un topo e un gatto, col topo che lanciava ogni volta in testa al gatto un mattone, finendo poi in prigione, e il gatto che interpretava questo gesto del topo come un atto d’amore.



Ecco, mi chiedo, e se avessimo sbagliato tutto? Noi subito abbiamo pensato a un attacco allo Stato, attraverso il personaggio pubblico Berlusconi. Ma se invece di un gesto d’odio quello di Tartaglia fosse stato un gesto d’amore? Se nella follia dell’uomo invisibile nella folla ci fosse nascosta solo la volontà di richiamare l’attenzione di un presidente che ha fatto della sua empatia col popolo il proprio vessillo? Berlusconi è stato e rimane il primo presidente mediatico della nostra storia, il primo a capire e sfruttare al massimo il potenziale offerto dai media per una più capillare diffusione del proprio messaggio. Facendo questo ha irrimediabilmente modificato anche il modus pensandi delle persone che sono cresciute nel suo raggio d’azione. E il suo raggio d’azione è immenso, tanto che personalmente diffido più di chi gli si dice nemico asserendo di non avere niente in comune con lui che non di un suo fedele. Per combattere un nemico potente bisogna prima saper riconoscere quanto di lui c’è in noi e io credo che, volenti o no, dopo trent’anni di televisione e venti di sua politica ci sia un po’ di berlusconismo in ciascuno di noi.
Qualcuno ha assorbito più berlusconismo di altri. Ecco quel che penso. E se Tartaglia abbia agito per vero odio verso il presidente, e quindi anche un po’ verso se stesso, oppure per amore, non lo so. Ma credo anche che, se la notizia verrà trasmessa troppo in Tv, così come da una parte favorirà nei sondaggi il presidente, che adesso assumerà agli occhi di molti l’aura del martire delle libertà (statene certi) allo stesso modo rischierà pure, come l’effetto di un bumerang, di favorire il ripetersi di atti simili da parte di persone ugualmente disturbate, che provano un’attrazione morbosa per lui.

giovedì 10 dicembre 2009

lou reed e l'amore, premessa

L’altra sera ascoltavo su internet l’ultimo singolo di Lou Reed, The power of the heart, pezzo scritto su commissione per Cartier e ripensavo, cullandomi nella bellezza della canzone, alla biografia che Victor Bockris gli ha dedicato, mi pare una quindicina di anni fa. Così mi sono alzato, sono andato a cercarla sullo scaffale e ho ripreso in mano il libro. E mentre facevo ripartire il pezzo sul pc, ho cominciato a sfogliarlo per ricordarmi alcune cose. Quella biografia, per quanto affascinante, non mi ha mai del tutto convinto perché sembra descrivere due Lou Reed diversi, uno cinico e romantico degli inizi e un altro cattivo, egoista e infantile degli ultimi anni. Lou Reed ha sempre sostenuto di avere più personalità al suo interno ma è anche vero che Bockris non gli ha mai perdonato di aver sabotato la reunion dei Velvet Underground nel ’93. La verità è che Bockris aveva più bisogno dei VU di quanto ne avesse Lou Reed. E la biografia passa dal racconto eroico dei suoi primi anni bohemien a una narrazione tutto sommato pettegola di alcuni episodi irrilevanti della biografia di Reed, messi lì apparentemente con l’alto scopo di raccontare la vita e la personalità dell’artista, ma che secondo me vogliono solo metterlo in imbarazzo. Cosa perdonabile in parte, se si considera che i due sono amici, ma di un’amicizia nata nell’entourage di Andy Warhol e quindi illuminata dalle regole vigenti in quello strambo mondo.



Questo non significa che Bockris abbia mentito. Magari ha calcato un po’ la mano su alcuni aspetti, e tutti sappiamo quanto influisca il particolare taglio che dai a un racconto, ma Lou Reed stronzo lo è sempre stato. Un po’ per autodifesa un po’ per profitto, certo, e anche con molta classe, ma stronzo sempre. Lo raccontano bene, in tutte le interviste che hanno rilasciato, le varie persone che si son trovate a vivere e lavorare con lui. Tutte hanno raccontato la propria storia, più o meno diversa dalle altre, ma tutte hanno concluso questa storia diversa nello stesso identico modo: con lui che le feriva irrimediabilmente. Poi certo, molte di queste persone lo hanno anche difeso, giustificato. Non puoi sperare che un uomo ferito egli stesso nell’anima e profondamente, abbia dei comportamenti normali con te. Dalle ferite, lasciandole aperte, può venire la luce e Lou Reed ha volutamente scelto di esplorare le proprie ferite per farne dell’arte. E spesso credo abbia addirittura fomentato il fuoco intorno a sé apposta per trasformarlo in musica. Chi gli è stato vicino e gli ha voluto bene ha pagato lo scotto di vivere accanto a un artista il cui tema di fondo è il dolore.
Nonostante tutto questo, anzi proprio per quanto detto sopra, forse le canzoni che preferisco di Lou Reed, ma non solo io, più ancora di Heroin, più di Waiting for my man, quelle che arrivano dritte al cuore e lì restano per sempre, sono le canzoni d’amore. Per la sua particolare incapacità di vivere pienamente una relazione sentimentale con serenità, le canzoni d’amore di Reed sono sempre, allo stesso tempo, totalmente intrise di romanticismo ma anche di fragilità, di sospetto a volte, e di pessimismo, come se tutto fosse necessariamente destinato a concludersi nella maniera peggiore. Il suo è un amore senza speranze. Il riflesso perfetto del suo mondo interiore e ciò che poi lo ha portato a distruggere, volente o no, ogni suo rapporto. Per quel che ne penso io, l’unico altro capace di scrivere e cantare canzoni dello stesso tipo allo stesso livello è stato John Lennon, il quale aveva avuto anche lui, proprio come Reed (che lo ha sempre considerato un fratello spirituale), un rapporto complicato coi genitori.
Per tutti questi motivi, e anche perché lo sto ascoltando parecchio in questi giorni, avevo pensato di scrivere (non necessariamente di seguito) una piccola serie di post dedicati alle canzoni d’amore di Lou Reed, alla loro storia. Perché se anche è vero che la storia dietro l’opera non sempre è necessaria alla comprensione dell’opera stessa, è invece sempre necessaria alla comprensione dell’uomo, e noi qui stiamo cercando l’uomo.

lunedì 7 dicembre 2009

pilota di guerra

È una canzone di De Gregori che conoscevo in versione live dall’album La valigia dell’attore ma che ho realmente scoperto sentendola nel suo contesto originario, l’album Terra di nessuno, uno dei dischi più notturni che mi sia mai capitato di ascoltare, grazie a Sergio del blog Ruminazioni. La metto spesso ultimamente e la sento così assolutamente mia da crederla quasi il mio ritratto. Yasemin mi dice che è ovvio, perché è stata scritta come omaggio ad Antoine de Saint-Exupéry, autore del Piccolo principe, col quale ho in comune sia il nome sia l’essere innamorato di una rosa.



Non per entrare nel merito del motore
ma ogni motore ha una musica ed io la so.
Così per sempre nel vento la farò cantare
per questa mia povera terra da sud a nord.
E quanto è solo un uomo lo so solo io
mentre volo sopra le ferite delle città.
E come un grande amore gli dico addio
e come è solo un uomo lo so solo io.

Oltre le nuvole, oltre le nuvole
o se possibile ancora un minuto più in là
con questa terra ai miei piedi
più scura e più nera a vederla da qua
ma un giorno il giorno tornerà.

Così la vita vola sotto le ali
e passa un’altra notte su questa guerra
e sulle case degli uomini tutti uguali
nel grande orfanotrofio della terra.
E a cosa serve un uomo lo so solo io
che spargo sale sopra le ferite delle città.
E come a un grande amore gli dico addio
e a cosa serve un uomo lo sa solo Dio.

Oltre le nuvole, oltre le nuvole
o se possibile ancora un minuto più in là
con questa terra ai miei piedi
più scura e più nera a vederla da qua
ma un giorno il giorno tornerà.

sabato 5 dicembre 2009

fa' piano

Quella volta che ho afferrato con mano
la bellezza, mi hai detto fa’ piano.
Ti stringevo ancora a me per trattenerti
e tu pensavi ti cercassi il culo.
Non ci siamo mai capiti noi ma ridevamo.
Ne ho un ricordo impastato ora
che mi tengo nelle fauci nella gola
come l’ubriaco al mattino il canto rauco.

venerdì 4 dicembre 2009

gli ospiti notturni

Scoprimmo, dopo lunghi appostamenti, ch’era un riccio a spazzolarsi il piatto che ogni sera mettevo fuori per i gatti, sotto la veranda. All’inizio sospettammo, senza un vero motivo, d’una coppia di cani liberi che già da un anno si aggiravano in zona, l’uno dal pelo scarmigliato e l’aria dolce e furbissima, l’altro più solido, dal pelo corto e nero come la notte. In verità li avevo in simpatia, facevo il tifo per loro ogni volta che vedevo passare la camionetta dell’accalappiacani, e davo un sospiro di sollievo quando la sera li vedevo riapparire dai campi dietro casa.
Fino a poco tempo fa bastava loro scavalcare il muretto del giardino per venire a mangiucchiare gli avanzi dei miei gatti. Poi è stata montata una rete tutt’intorno al muretto, il cancello ben chiuso, e si sono allontanati. Ogni tanto li vedevo andarsene in giro per il paese, ma separati. Quello furbissimo sempre più magro e il nero circospetto, come se avesse un po’ paura adesso che nessuno gli guardava le spalle. Poi più nulla. Il loro posto è stato preso da un riccetto lucido che viene la notte dai campi e passa tranquillamente fra le sbarre del cancello. L’ho scoperto una sera per caso, al rientro, tutto concentrato sul contenuto del piattino. E quando mi ha sentito è corso a nascondersi dietro una scopa lì accanto. Ho fatto finta di nulla passando, per non spaventarlo, e infatti la sera dopo è tornato.
E io, per festeggiare il suo ritorno, gli ho preparato due spaghetti al ragù. E mentre mettevo fuori il piatto ho pensato che questa dovevo proprio raccontarla a Licia, che sembra non stupirsi mai di nulla e chissà, forse per una volta l’avrei sorpresa.

martedì 1 dicembre 2009

parlando di simone gatti



Si chiama Simone ma è detto semplicemente il gatto. Da qualcuno è considerato l’ottava piaga d'Egitto, il più pestifero dei ragazzini che mai abbiamo visto in paese, da qualcun altro una fonte di divertimento continua, una sorta di Gianburrasca dei poveri. Passa la maggior parte del tempo per strada, ficcandosi con assoluta incoscienza in qualsiasi guaio gli capiti a tiro. Oppure al cinema, dove ha l’ingresso gratuito perché è amico di Mimmo, la maschera. Con lui ha un rapporto di odio e amore, e talvolta si becca una poltrona in platea, talaltra un meritato schiaffone. Simone da grande sogna di fare il carabiniere, e per questo lo si vede spesso girare con addosso un gilet della Protezione Civile di cui va molto orgoglioso. Con quello addosso si fionda nel traffico di mezzogiorno e cerca di districarlo al meglio che può, incurante del rischio che corre di farsi mettere sotto da qualcuno e anche delle battute salaci di chi passa e gli urla che ha sbagliato divisa e che quello è mica compito dei carabinieri ma dei vigili urbani.