mercoledì 31 marzo 2010

fiat umbra



Questo fine settimana, la domenica di Pasqua, andrà finalmente in scena Fiat Umbra, la prima opera teatrale da me scritta. Con Adriano Basile e Filippo Carrozzo, regia di Carlo Formigoni.

Dal comunicato stampa dell’opera:
In una serata invernale due ragazzi della provincia pugliese si muovono verso Bari per una notte di divertimento e follia. La perdita della macchina li costringerà a vagare per le strade della città alla ricerca di un rifugio e li porterà a un lungo dialogo rivelatore di paure e di ansie comuni anche se spesso abilmente dissimulate.
Fiat Umbra appunto, in cui l’espressione latina traducibile con “sia fatto il buio” si confonde con la sigla della nota casa automobilistica: in questo gioco linguistico così equilibrato fra paura, incoscienza e divertimento è racchiuso tutto il senso dell’opera.
Nato da un progetto di Carlo Formigoni e Antonio Lillo, la volontà alla base dello spettacolo è quella di dar voce alla confusione generazionale tipica di un’età difficile come quella post-adolescenziale e di osservarne, attraverso la perfetta contrapposizione di due caratteri, le mille sfaccettature. La rivelazione racchiusa nel fraterno ma non consolatorio “abbraccio” dei due protagonisti vuole mostrare come, al di là delle mille differenze e del diverso modo di affrontare la vita e le sue difficoltà, le problematiche e il senso di spaesamento originato dal confronto col mondo siano eterne e di tutti.

E vai!

venerdì 26 marzo 2010

per non sbagliare domenica



Da un paio di giorni su FB, che non ho e quindi mi è stato riferito da terzi, è uscito questo santino con la mia effigie (opera di Rob Lacarbonara) e pensato, evidentemente, dopo un articolo dedicato a Vendola che ho pubblicato di recente. Mi si dice anche che il mio santino ha fatto furore. Beh, che fossi schierato già si sapeva, ma che lo fossi così tanto non l'avrei detto nemmeno io:D Fatto sta che mi piace e lo pubblico, aggiungendo: mi raccomando a chi votate!
Dedicato a Paolo Vites che ha fortemente creduto in questa mia candidatura, prima di chiunque altro ;)

mercoledì 24 marzo 2010

lou reed e l'amore - rachel

È Lou Reed stesso a svelarci come conobbe Rachel. La incontrò nell’autunno del 1974 in un bar di New York e se ne innamorò a prima vista, poi la abbordò e se la portò a casa per fare delle cose a tre con la donna con cui conviveva. La donna se ne andò e Rachel rimase. A testimonianza di quest’incontro ormai mitico restano varie interviste e alcune canzoni, fra cui Crazy feeling su Coney Island baby del 1976 e la prima parte della suite di Street Hassle.
Ma gli aneddoti sulla coppia Lou-Rachel sono così tanti che ci si potrebbe scrivere un libro intero. Uno dei preferiti di Lou riguarda il periodo in cui si chiusero nel Gramercy Park Hotel per permettergli di scrivere e registrare Coney Island baby, l’album del suo rilancio commerciale dopo che, in un impeto di orgoglio artistico, aveva dato alle stampe nel 1975 Metal Machine Music, più di un’ora di sola chitarra distorta: per molti un capolavoro assoluto, per altri semplicemente inascoltabile. In questo aneddoto una mattina la cameriera entrò in camera senza sapere che Lou e Rachel erano a letto. La cameriera entrò, vide Rachel, quella che riteneva la “signora Reed” nuda e cominciò a lanciare una serie di urletti sconvolti prima di scappar via dalla stanza. Reed rise per giorni al ricordo di quella scena. Il fatto è che Rachel in realtà si chiamava Tommy ed era un bellissimo travestito. Aveva sangue per metà indiano e per metà messicano, la pelle scura, era silenziosa e forte, capace di tener testa persino alle intemperanze di Lou, che in quegli anni per molti erano davvero insopportabili, a causa della droga che acuiva in lui la crudeltà e il cinismo. Questo, disse poi Reed, non succedeva con Rachel perché lei era cresciuta per strada, era stata in riformatorio e poi in prigione, insomma aveva la pelle dura (e le palle, aggiungerei io). Lei gli rimaneva sempre e comunque accanto, non parlava quasi, e gli offriva amore incondizionato e una spalla a cui appoggiarsi nei momenti di smarrimento. Non stupisce che, al di là dei suoi disturbi comportamentali tipici di un drogato forte, anche lui fosse del tutto preso da lei. A questo amore senza confini Lou dedicò uno dei suoi album più romantici e sinceri, Coney Island baby, in cui, come ammise in seguito, ritrovò dopo anni l’entusiasmo per la forma semplice e perfetta del rock’n’roll: tre accordi, due chitarre, basso e batteria.
La maggior parte delle canzoni dell’album sono sentite dichiarazioni d’amore a una persona, Rachel appunto ma anche, più sottilmente, a un mondo, quello della fauna da bar dei bassifondi da lui molto frequentati in quegli anni, come si avverte soprattutto in pezzi come Kicks o Charley’s girl. A parte ciò la canzone più importante dell’album rimane la title track, un pezzo doo-wop recuperato dall’adolescenza di Reed e completamente riscritto per l’occasione, in cui Lou rivede tutta la propria vita alla luce di quell’incontro fondamentale. Coney Island baby è lenta e avvolgente, meravigliosamente romantica, e se quando uscì venne in parte paraculata per i suoi riferimenti omosessuali, in breve si impose come un inno alla “gloria dell’amore” e non solo per il movimento gay di New York.



L’amore di Lou e Rachel durò tre anni, né si conoscono i motivi della rottura. Si potrebbe dire che le storie nascono e muoiono di continuo. Se non fosse che quando si parla di un artista c’è sempre il rischio che queste storie vengano poi sublimate nella sua opera. Così successe anche per la fine del loro rapporto. All’inizio furono pochi pezzi, sempre nello stile “classic rock” di Coney Island baby, cose come Wait o Slip away, che poi divenne la terza parte della suite di Street Hassle, del 1978, in cui Reed lamentava la perdita della persona amata. Fu il suo produttore Clive Davis a suggerirgli, ascoltando i due minuti di Slip away di allungare il pezzo perché aveva delle potenzialità. A quello che ne sappiamo noi dalle cronache, Reed gli rispose piccato qualcosa come: “Ma che cazzo ne capisci tu di musica, pezzo d’idiota ignorante, ecc…” poi andò a casa, si mise alla macchina da scrivere e allungò il pezzo, trasformandolo in una suite per archi e chitarra elettrica e trasportando il sentimento di confusione e rabbia per la fine del suo grande amore in un oscuro racconto di strada alla Raymond Chandler. Il racconto è diviso in tre parti. Nella prima viene riscritto in maniera piuttosto sensuale il loro primo incontro nel bar con una modifica significativa: nella storia raccontata da Reed adesso è lei che adesca lui. Nella seconda parte interviene un terzo personaggio (sempre interpretato vocalmente da Lou): l’affittacamere di un albergo a ore che, dopo quella che viene descritta come una morte per overdose, quella di lei, consiglia al ragazzo protagonista del racconto di sbarazzarsi del corpo trasportandolo verso la strada e lasciandolo lì, in modo che qualcuno lo investa e sembri solo un altro “incidente stradale” (Street Hassle appunto). In questa parte della suite il cinismo di Reed arriva a punte altissime quando l’affittacamere, cercando di consolarlo, definisce qualsiasi rapporto d’affetto come una malasorte: “bad luck”.
A questo punto, dopo un assolo di chitarra, interviene il coro, come nelle tragedie greche. Questo coro è interpretato da Bruce Springsteen. Il nuovo cantore delle strade d’America stava registrando nello stesso studio di Lou Reed, al piano di sotto, e venne intercettato da questi apposta per recitare poche semplici strofe, che sottolineassero la verità della canzone e l’amarezza della vita e come in fondo “la vita sia piena di canzoni tristi”. A questo coro si attaccano finalmente i due minuti composti in origine, a caldo, da Lou. Sono i più sentiti del pezzo, quelli cantati col cuore in mano e con la voce che trema di dolore e pianto. Come abbiamo già detto altrove, raramente Reed è così diretto nell’esprimere i suoi più intimi sentimenti. “L’amore se n’è andato, portando via i miei anelli dalle dita” canta Lou ed è come se dicesse: “portandosi via tutte le promesse che mi ha fatto”. È commovente. Mai più Reed si aprirà così tanto (emotivamente parlando) in una canzone. E proprio per questo, e per l’altissima qualità musicale e narrativa del pezzo, per molti Street Hassle rimane il suo capolavoro assoluto come artista, se non proprio come autore di canzoni.



L’amore se n’è andato
portando via i miei anelli dalle dita
e non c’è altro che mi sia rimasto da dire
ma oh quanto, oh quanto ne ho bisogno
ritorna amore, ho bisogno di te amore
oh per favore non fuggire via
ho bisogno di te così tanto da star male
per favore non fuggire via

Negli anni ’80 poi, quando Reed si fu del tutto disintossicato e cercò di indirizzare la propria poetica verso nuove forme di intimità domestica, in parte rinnegò questo amore, di sicuro non ne parlò mai più senza una certa difficoltà. Certo è possibile che tutto questo fosse più il risultato della negazione di una grande sofferenza che non di un passato “imbarazzante”. Fatto sta che in Heavenly arms, bellissimo pezzo del 1982, scritto per la nuova compagna Sylvia Morales, a un certo punto canta: “solo una donna può amare un uomo” che superficialmente può sembrare un riempitivo, se non fosse che qui si parla di Lou Reed, uno dei più grandi scrittori rock, e quindi è facile pensare che non sia un verso casuale: sembra più una dichiarazione di intenti. Ed è anche vero che spesso, in seguito, nelle interpretazioni live della suite l’ultima parte scomparirà del tutto e la canzone si fermerà sempre a quell’oscuro “bad luck”. Di Rachel, così come per la terza parte della suite, dopo la storia con Lou non si seppe più nulla. Di lei ci restano soltanto, come prove della sua esistenza, alcune foto con Lou di cui una si intravede sulla copertina di un disco (quello in alto, sotto il titolo) e il suo nome pronunciato alla fine di Coney Island baby. Nient’altro. Qualcuno racconta che sia morta di AIDS nei primi anni ’90. E qualcuno sostiene che fra le tracce di Magic & Loss, del 1992, il disco più bello e maturo di Reed, quello dedicato alla morte degli amici e a come affrontare il senso di perdita che ne viene, almeno una traccia sia dedicata a lei. Ma su questo Lou non si è mai espresso.

giovedì 18 marzo 2010

il fiore (di william blake)



Mio Passero allegro
sotto foglie verdissime
un Fiore felice
ti vede come freccia veloce
cercare la tua umile culla
vicino al mio cuore.

Mio Pettirosso grazioso
sotto foglie verdissime
un Fiore felice
ascolta il tuo lamento amoroso
pettirosso grazioso
vicino al mio cuore.

martedì 16 marzo 2010

ulisse e il vento



È un gatto forte e nero e si chiama Ulisse
grasso e morbido come un cuscino sprimacciato
d’inverno i gatti del vicinato
vengono a stendersi su di lui perché così nero
cattura i raggi del sole ed è il più caldo di tutti
tutti insieme si mettono al sole
e lì stanno per ore ronfando e nei giorni
di freddo scirocco grandissimo e paterno Ulisse
li abbraccia in un sol colpo
e li protegge come le mura di un fortino
dal vento e dai colpi di sfortuna.

lunedì 15 marzo 2010

foto di marzo, senza scatto

Che belli gli aquiloni sul filo del mare, il vento li trascina come trascina noi lungo la spiaggia. C’è un freddo cane e liberi corrono i cani, lasciando impronte profonde da seguire sul cammino, per non perdersi. Parliamo del futuro e di progetti nascosti lì, dietro le dune, accanto ai due ragazzi che si amano. Ti basta allungare il collo per vederli, non li vedi? Ci resta addosso l’odore d’erba, sui vestiti, sui cappotti lunghi, impigliato fra i riccioli dei tuoi capelli. Il sole riflesso sul pontile trasforma il legno in oro e si allunga fino al mare. È una distesa immensa di sabbia e immondizia trascinata a riva dalle onde. Ti chini a raccogliere un osso di seppia e me lo passi, è per te mi dici, da lanciare agli uccelli. Lo porto al naso per sentirne l’odore salmastro, ne sfrego fra le dita la superficie ruvida, lievemente frastagliata e i bordi taglienti di coltello. Me lo tengo per ricordo questo, e mi sorridi. E parli della luce magica di ottobre, la migliore di sempre mai offerta ad un fotografo, vedrai. E mi parli del tuo cane Saffo e del suo nome, delle sue fughe e dei ritorni. Canticchi quell’antica ninnananna che appena ricordavo di sapere. Osservo andare a vento gli aquiloni. A tempo col tuo canto, quasi per caso.

domenica 14 marzo 2010

metafisica



Il contrabbasso fossile è di Enzo Guaricci, in mostra alla torre del castello di Conversano da sabato prossimo (20 marzo) fino al 3 aprile. Insieme a lui Dario Agrimi. La mostra è curata da Rob Lacarbonara e Luca Arnaudo. Foto scattata il 13 marzo, durante l’allestimento e pubblicata il 20 marzo sulla Repubblica.

lunedì 8 marzo 2010

8 marzo? 8 marzo.

Voi vi starete chiedendo: perché proprio ‘sta canzone per ‘sto giorno? In fondo, all’apparenza, è la canzone scritta da un uomo che parla dell’incontro occasionale con una donna che peraltro non è nemmeno la Baez. I miei amici in più aggiungeranno: vabbe’ ma se c’è Dylan si capisce, tu sei fissato!
In realtà i motivi per cui torno sul luogo del delitto proprio oggi sono due. Uno è la strofetta che ho riportato qui sotto, una strofetta che la Baez, nonostante sia da sempre grande estimatrice del songbook dylaniano, reinterpreta facendogli il verso e cantandola come la farebbe lui, con quel tono strascicato e un po’ nasale. Insomma una vera e propria presa per il culo. Nei loro momenti più bui era Dylan che, per insultare la Baez prendeva a pretesto la sua voce così bella, cristallina, così poco hip, sfottendola a più non posso. Adesso la Baez, pur nel rispetto del cantautore si prende pubblicamente la sua rivincita sull’uomo, attraverso l’arte e con un’ironia e un’eleganza senza pari. Tutto questo sullo stesso album in cui ha pubblicato Diamonds and Rust, nel 1975. Mi pare una grande vittoria della donna su se stessa e sui propri sentimenti e una grande dimostrazione di indipendenza intellettuale.
Il secondo motivo della mia scelta sta nella sua volontà di arrangiare il brano, nell’originale un dolente pezzo acustico, come un pezzo rock veloce e allegro: attenzione, il primo pezzo rock della Baez, che finora si è quasi sempre cimentata col folk. Quella che in Dylan era una dolorosa ed “esistenziale” metafora della precarietà dei rapporti umani e della propria vita, diventa nella versione della Baez, proprio in virtù di tale arrangiamento, una gioiosa manifestazione della possibilità che proprio questa precarietà offre a chiunque di ricreare di continuo il proprio destino e in meglio. Insomma un inno alla libertà e all’autodeterminazione dei propri sentimenti. Da ascoltare sempre col volume al massimo.



He woke up, the room was bare
He didn’t see her anywhere.
He told himself he didn’t care, pushed the window open wide,
Felt an emptiness inside to which he just could not relate
Brought on by a simple twist of fate.

giovedì 4 marzo 2010

verso avellino















Foto scattate il 13 febbraio scorso in viaggio verso Avellino. Dedicate a Rob Lacarbonara, ai cani e alla terra.