sabato 30 aprile 2016

pomeriggio alle case bianche


la caccia

Non si vive più senza sesso, mi dice lei dopo l’incidente che l’ha ridotta così, sbattuta sul divano in shorts col lungo gesso che la immobilizza e un gatto che si affila le unghie all’altezza del ginocchio. Accarezza con lentezza esasperata e provocante una delle stampelle appoggiate al bracciolo e passa – senza successo – a lamentarsi di sé, di noi, come fa quand’è realista, e passo io a trovarla per prepararle qualcosa da mangiare al posto mio, che so un brodino. Attacca a parlare con voce lunga e appuntita, e come ogni volta non mi resta che distrarmi, per non cadere vittima dei suoi piani. E accade, in quel momento, che una scena inattesa si aggrappi alla finestra con un frullo d’ali. 
Un pettirosso crolla in picchiata sulla zanzariera e vi si aggrappa, si arrampica con le zampette tremanti in cerca di salvezza, infilando come può le unghie fra le maglie della rete. Sarà l’impressione che mi fa la scena nel ricordo, oppure il suo spasimo illuminato dal primo sole d’estate, ma il suo corpicino mi appare verde elettrico, quasi quello di un canarino dal cui petto sgorghi una macchia ininterrotta di sangue in superficie. Dietro di lui una grossa gazza nera con riflessi bluastri sul capo e sulla punta delle ali, si posa sul parapetto in attesa, da brava cacciatrice, e sollevando la coda molla con gusto un escremento fumante fra le zampe solide. Il pettirosso la nota e con un ultimo slancio disperato spicca il volo e riparte con una traiettoria ad arco sopra la testa della gazza, verso la siepe di sotto. 
La gazza, con un balzo compiaciuto, riparte e si lancia giù dal parapetto, lo insegue planando sicura fino al cespuglio della siepe dove s’è infilato, tuffandosi al suo interno mentre lo bracca quasi per gioco. Il cespuglio trema al loro passaggio ed esplode per il volo di altri uccelli nascosti. Decine di volatili, lunghi nemmeno un dito, che punteggiano l’aria come una manciata di semi. E intorno altre gazze ballano sui campi appena falciati che cominciano a scaldarsi per la prima estate. 
Non si vive più senza sesso, mi ricordo questo, e il volo che mi ha distratto dal suo discorso. E il tono sempre più sarcastico, e angustiato, e avvelenato, poi rabbioso, della sua voce. Il tentativo, frustrato, di lanciarmi addosso il gatto. Poi il suo grido di guerra mentre mi caccia di casa, e il lancio della sua stampella e il tonfo sulla porta, che si richiude alle mie spalle mentre scappo.

venerdì 29 aprile 2016

thelonious monk e bob dylan



Non mi ero mai accorto di quanta vicinanza ci fosse, nell’immaginario musicale, fra due giganti della musica popolare come Thelonious Monk e Bob Dylan. Le frasi che ho messo insieme qui sotto (spesso luoghi comuni) sono state applicate nel tempo a entrambi, e sono a ben vedere intercambiabili fra i due, almeno finché non si approfondisce.

«È autore di bellissimi pezzi, spesso coverati (meglio) dai colleghi, ma di per sé è un pessimo interprete, inelegante e senza tecnica, al massimo con uno stile unico e assai personale, utile a dire ciò che deve.»

«Le cose che scrive sono fortemente legate alla tradizione, eppure sembrano spesso essere un passo in avanti rispetto al presente. A un primo ascolto sembrano sopra le righe, eppure facendo più attenzione, al secondo ascolto ogni cosa torna inspiegabilmente al suo posto.»

«Ha un pessimo carattere, non si capisce mai cosa pensa. Ora dice una cosa e poi si contraddice senza problemi. Le risposte che dà alla stampa sono spesso surreali, talvolta sgangherate. Suonare con lui invece è una impresa. Durante i concerti è spesso imprevedibile e pretende che tu lo segua per solo intuito, creando ansia e adrenalina nei suoi musicisti.»

«Nei suoi anni giovanili era cool e assai ammirato, per quanto vendesse relativamente poco, spesso molto meno dei suoi epigoni. Aveva grande capacità di gestire la propria immagine oltre che la propria musica. Il modo in cui vestiva era capace di generare delle mode, non solo nel pubblico ma anche fra i suoi colleghi. Invecchiano invece si è chiuso in un silenzio pieno di mistero, innalzando una sorta di muro invalicabile fra sé e il mondo.»

giovedì 28 aprile 2016

rocksogno

Il mio sogno della scorsa notte. Vengo invitato a Putignano, a una serata in omaggio a Piero Ciampi. Ci vado e mi ritrovo seduto allo stesso tavolo con Prince, David Bowie e George Martin. Mi batte forte il cuore, ma loro mi snobbano, nemmeno mi guardano in faccia. Continuano a sorseggiare i loro cocktail e fissarsi senza spiccicare una sola parola. C’è anche Vasco Rossi, che si fa una birra, fuma, canticchia, tamburella le dita sul tavolo, ed è l’unico dei quattro a parlarmi. Gli chiedo cosa ci fa lui seduto lì con loro. “Sono morto anche io nel 2016, che ti credi?”. “Cristo, quindi sei un genio anche tu, alla fine?”. “La cosa più vicina a un genio che c’è in giro” mi risponde lui con orgoglio. Mi guardo intorno e mi viene un sospetto. “Ma quindi? Anche io sono un genio?”. “Tu no, non sei nemmeno morto… Ti è solo capitato di trovare il posto libero… Però continua a crederci, che forse, se ti impegni dico, non arrivi nemmeno a fine anno. E se te lo dico io, eeehh… In culo alla balena!” “In culo alla balena che c’entra, adesso?” “Nulla, mi piace. Va bene così, è la frase del giorno questa. In culo alla balena!” “Va bene Vasco, grazie, in culo alla balena anche a te!”

martedì 26 aprile 2016

che cos’è un editor

E alla fine è successo pure a me che dei ragazzi mi chiedessero che cos’è un editor e cosa fa, e io che aspettavo da una vita questa domanda gli ho risposto che un editor è come un produttore musicale. Un editor è come George Martin che quando Paul McCartney va da lui per fargli sentire Yesterday, Martin gli dice: “Bella, e se ci mettessimo dietro un quartetto d’archi?” dandole, col suo arrangiamento, quel suono malinconico e senza tempo che non corrompe la canzone, semplicemente ne amplifica l’emozione. Oppure, all’opposto, è come Rick Rubin quando Johnny Cash va da lui per ricostruirsi una carriera e Rubin gli dice: “Ok, tagliamo tutto, via gli altri strumenti, via tutti gli orpelli, adesso ci mettiamo io e te in una stanza, prendi la chitarra e mi suoni semplicemente quello che ti piace” dando così inizio alle American Recordings.

sabato 23 aprile 2016

in un pomeriggio di sole a piazza vittorio


luce alla lussuria

(ad Antonio Porta)

Luce alla lussuria.
Panna nell’albume.
Capocchia di lucertola.
Albume senza cuore.
Pancia del tuo alluce.
Mordicchi il mio limone.
Lucifero dall’alto.
Dal basso lucernario.

Lucignolo a Pinocchio:
Amore mio svitato.
Mia luce mia lussuria.
Mio buio lampadina.
Mio buio a me ciclope:
Mi avvito in te nell’occhio.
Mia luce in preda al cocchio.
Tutta sfreni.

cosimino va alla guerra


martedì 19 aprile 2016

corso di scrittura

Per cominciare leggo un racconto di Sandro Veronesi, sperando di invogliarli. Il racconto parla di un tipo che scopre che la sua ragazza gli ha messo le corna. Allora lui che fa? Prende un cacciavite, salta sul motorino e parte verso Galleria Borghese, per sfregiare l’Ultima Cena di un pittore rinascimentale di cui non ricordo il nome, perché andare a vedere quell’opera è stata l’ultima cosa bella che lui e la sua ragazza hanno fatto insieme e lui vuole distruggere il ricordo. 
Mimmo, che stranamente, per tutto il mio preambolo e la prima parte del racconto, se n’è rimasto rattrappito e taciturno sulla sedia, come una molla pronta a scattare, quando sente del quadro comincia ad agitarsi e poi a urlare, si alza e lancia oggetti per la stanza. Non si fa! Non si fa! Non a Gesù Cristo! Non si sfregia Gesù Cristo! Ma come si permette questo! 
Servono tre persone per calmarlo. Poi chiedo a tutti di scrivere un racconto “in risposta” a quello di Veronesi. Lo chiedo anche a Mimmo che prima si nega, poi tentenna, alla fine accetta chiedendomi dove vive questo Veronesi. Roma presumo, gli rispondo. 
Così Mimmo si mette al lavoro, rattrappendosi ancora una volta sulla sedia, all’angolo del tavolo, tutto concentrato sul foglio e puntando ogni tanto la penna verso qualcuno nella stanza. In poco più di mezz’ora scrive, a mano, un racconto di sei pagine in cui, con furia inaudita di samurai, dà corpo alla sua lista nera in un bagno di sangue che comincia a Martina Franca e finisce a Roma, riassumendo trent’anni di sfiga e di soprusi subiti dal prossimo. 
Immagina così, in una sorta di trasfigurazione robocopiana, che gli spuntino armi dal corpo, dalla braccia, dalle gambe, dagli occhi, persino dai muri, dalla strada, dagli oggetti intorno, senza tregua. Una mattina esce di casa, a Martina Franca, e comincia a far fuori tutti coloro che nella vita gli hanno fatto un torto, dirigendosi implacabilmente verso Roma. 
Quel droghiere che non gli ha dato il resto due anni fa – BANG! – il tabaccaio che non gli ha fatto credito sulle sigarette – BANG! BANG! – il tipo che nei ’70 gli ha tagliato la strada mentre andava in bici – BANG! – la tipa che a quindici anni lo ha tenuto sull’amo per un po’ senza farci nulla – BANG! BANG! BANG! 
Alla fine, dopo sei pagine intrise di pura violenza tarantiniana che più volte scatena gli applausi della classe, Mimmo raggiunge Sandro Veronesi, lo lega alla sedia, gli mette dell’esplosivo sotto la sedia, lo maltratta un po’ per farlo friggere nella sua paura di scrittore che ha pestato i piedi a qualcuno che sta più in alto di lui. Poi lo fa saltare in aria, riducendolo in atomi. E conclude così il suo racconto:
“E sappia, il signor Sandro Veronesi, che Gesù è buono, e lo ha già perdonato. Ma io NO.”

lunedì 18 aprile 2016

anteprima

Oggi Atelier Poesia (QUI) pubblica in anteprima due inediti in dialietto curdunnese dal secondo capitolo del mio prossimo libro. Il volume si chiama Bestiario Fiorito, sono 200 pagine, 10 euro, ed è una raccolta di poesie satiriche (in senso classico) scritte fra 2010 e 2015, al passaggio cioè fra la caduta di Berlusconi e l'insediamento di Renzi al Governo, chiudendosi poco prima degli attentati di Parigi. Per questo libro intendo fare come ho già fatto per Viva Catullo. Cioè promuoverlo il meno possibile, lo porto in giro, lo leggo, lo mando ai concorsi, ma non scasso le persone per farne mercato. Sapete che c'è, poi se uno lo vuole me lo chiede e lo vendo senza problemi, ma voglio essere il meno invasivo possibile. Lo mando in stampa nei prossimi giorni. 
Questa è la copertina, opera di Gianmaria Giannetti.

domenica 17 aprile 2016

schemi

Esco dalla sezione elettorale e vado a farmi un giro. Incontro il mio amico Piero, di profonda e comprovata fede nella destra più estrema. 
“Beh, hai votato?” 
“Sì.” 
“Non hai seguito le indicazione del tuo capetto?” 
“Figurati! Io vado a votare solo perché c’è uno stronzo che mi dice di non farlo.” 
Si fa una risata. 
“Certo che sei proprio un comunista fuori dagli schemi.”

quelli che impongono di votare sì

Ho letto post di renziani che attaccano QUELLI CHE IMPONGONO DI VOTARE SI (questa a Jannacci sarebbe piaciuta), li definiscono fascisti, perché se mi obblighi ad andare a votare per dire quello che vuoi tu (ovvero il SI, perché fosse per me direi il NO che vuole Renzi), allora sei un fascista! Ecco, volevo dire a quelle persone che di tutte le boiate ignoranti che ho letto in giro su questo referendum questa è veramente la peggiore. Tanto più che l’età media dei renziani è la mia, e mi aspettavo qualcosa di più dalla mia generazione, non il solito “fascista o non fascista”. Un po’ più di fantasia. 

gengive

Chissà che vedeva mio nonno nella lunga estate, quando da solo in giardino aguzzava lo sguardo verso l’albero o la strada vuota alla ricerca di vecchi compagni e di ricordi perduti per la demenza. Forse è così la vita a un giorno, tutto torna di soppiatto e vanamente cerchi di interpretare i segni della fine attraverso l’afa e il rimpianto. Mio nonno, seduto sotto il cedro, strizzava gli occhi perplesso e stringeva le mani dai grossi polsi sformati in preghiera. Fissava in basso, verso la terra, rimasticando e ripulendo per ore il seme duro del tempo fra le gengive indurite.

sabato 16 aprile 2016

come si fa a saperlo

Milton finì di legarsi le scarpe, inglesi, di pelle di foca, di grande misura, fin dall’origine piegate a barca. 
Poi si drizzò, le si avvicinò e le sfiorò con le labbra una spalla. – Non hai freddo? Non aveva freddo, ma si portò una mano sulla spalla, là dove s’erano posate le labbra di lui, quasi a ritenere, fissare il bacio. 
Disse poi: – A momenti non litighiamo? E dopo quel che abbiamo fatto. 
– È colpa mia, – disse lui in fretta. 
– L’abbiamo fatto, Milton, – disse lei adagio. 
– L’abbiamo fatto. 
– Tu lo sapevi che l’avremmo fatto? 
– Ci speravo. 
– Solamente? 
– Ci speravo moltissimo. 
– E non sapevi che l’avremmo fatto? 
– E come si fa a saperlo di sicuro. La cosa dipende talmente da voi. Da voi donne. 

[Beppe Fenoglio, Qualcosa ci hai perso, in Tutti i racconti, Einaudi 2007] 

Lo leggevo stamattina e ho pensato che qui si sente fortissima l’influenza di Hemingway sulla scrittura di Fenoglio.

venerdì 15 aprile 2016

fame

Sono in studio. La porta si apre ed entra un nero sventolando un accendino. Gli dico, scocciato: No, senti, non mi interessa. Mi risponde: No, non mi frega nulla, ho fame, dammi almeno una moneta, ho fame, per favore non mangio niente oggi, ho fame. Ripete tre volte ho fame, con una paura nella voce che viene da tremare anche a me, e senza nemmeno sapere come mi alzo e tiro fuori il portamonete. Gli compro due panini e una bottiglia d'acqua da un litro. Lui mangia i due panini di fronte a me, il primo senza nemmeno gustarlo, per solo bisogno, il secondo con più gusto, ma sempre troppo veloce. E beve, dopo, il litro d'acqua quasi tutto in un sorso. Di fronte a me, in piedi, sulla porta del mio studio. Poi, sazio, mi dice grazie, e mi stringe la mano, me la stringe così forte, con tanta di quella gratitudine che ancora mi sento la pressione sulla pelle. La gente che passa davanti allo studio ci guarda come si guarda un cartone animato, con troppo lieto fine per essere credibile. Intanto, da qualche parte in Europa, ci sono persone che parlano di alzare muri e chiudere fuori questa gente, ma fuori da cosa? Dicono di farlo per il bene di tutti, ma io mi chiedo come fanno a non sentirsi degli stronzi se io, solo che uno mi dice che ha fame, mi sento subito colpevole.

sabato 9 aprile 2016

luciano


feccia

Di Gianni Priano

Giovanni Bonfante vive nell’entroterra ligure, in un paese nel quale – in inverno – non si contano più di quaranta persone. Ha studiato dai preti (lui dice: “da prete dai preti”) fino ai vent’anni. Dopodiché si è trasferito in Francia impratichendosi di vari mestieri tra cui il fornaio, il vivaista, la guardia notturna ed il conducente abusivo di taxi. Ritornato in Italia – nel 1996 – all’età di trentacinque anni vi è rimasto qualche settimana – vagabondando per le strade di Torino e di Savona – finché si è imbarcato per l’Algeria (“facendo vita grama e passando anni brutti” mi dice). Ritornato in patria (chiamiamola così) nel 2014 si è piantato (“come una fava”, cit.) nel paese della nonna materna. Scrive sotto pseudonimo e vive (“mica vivo, sottovivo”) con una pensione di invalidità (“e cinquantamila euro sotto il materasso, finché durano”) in una piccola casa rurale a cui gioverebbe una consistente ristrutturazione, a poche centinaia di metri da una splendida faggeta. Non ha telefono, né computer, né automobile. Scrive a mano su fogli protocollo che mi consegna, periodicamente, pregandomi di distruggerli dopo avere ricopiato e pubblicato su fb le sue poesie. In casa, disposti su uno scaffale della cucina ha i seguenti libri (da sinistra a destra): La malora, Il mestiere di vivere, Religione e futuro, La Bibbia, Il Corano, Il silenzio di Dio, Promessi sposi, Odissea, La Peste, Moby Dick, La Nausée, Les Mots, I fratelli Karamazov, Histoire de l’oeil, Le Petit, Le Mort, Ma Mére, Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide. Georges Bataille: l’estetica dell’eccesso, Aden Arabia, La Conspiration, Le Cheval de Troie, Pianissimo, La vose de la sera, I fiori del male, Lavorare stanca, Le Occasioni, I Colloqui, La via del rifugio, Un po’ di febbre, Marco e Mattio, La notte della cometa, Mareblu, Sangue e suolo, La chimera, Tempo di massacro, L’arrivo della lozione, Abitare il vento, La vita agra, La cognizione del dolore, La Madonna dei filosofi, Frammenti eraclitei, La Gaia scienza, Ecce Homo, Genealogia della morale, Così parlò Zarathustra, Le categorie del politico, Nemesi medica, Essenza del nichilismo, Mexico City Blues, La malattia dell’altrove, Esercizi di Verbo, L’odissea del nichilismo, Fame, Il cappotto, Zibaldone, Lenta ginestra, L’anomalia selvaggia, Compagna luna, La sirena delle cinque, Scorciatoie e raccontini, Danubio, Il voltagabbana. Un libro è aperto sul tavolo, accanto ad un mezzo panino con margarina spalmata e acciughe. Il titolo è Quaderno d’ Israele.
Altro dirvi non posso perché Bonfante me lo ha proibito.
Ecco, di seguito, la sua poesia.

Salivamo, in Bachernia
la faccia sui mattoni
e le ginocchia al mento.
Sotto i bei glicini
a ridosso di una palma
non il nome segnavo
ma una cifra.
Per cadere da me
fare finalmente parte
togliermi una pelle
solo mia.
Arrancavo, in Bachernia
tenendomi al corrimano
come i vecchi.
Immaginando i muli
quassù: dove i ricchi hanno casse
di liquori e fogli di antiche case
mappe catastali, ricevute di ritorno, tessere
del Partito liberale italiano, del Movimento sociale
della Diccì, del Partito Monarchico
e il santino di Craxi, che tiene il segno
perduto in Moby Dick.
Venivamo qui la sera tardi. Specie
di primavera. A scrivere assassini
boia borghesi ancora pochi mesi
la rivolta non molla
vi schiacceremo il capo
vi attaccheremo al muro
vi appenderemo all’ingiù.
Sbucavamo, in Via Chiodo
e Ivan scrisse FECCIA
a caratteri cubitali, in nero
perché il rosso, mioDio, era finito
come la primavera e la sera.
Sopraggiungeva l’estate dell’ 81.
Con Proudhon a languire
e benedire (insieme a Garibaldi)
nelle tasche di quello
che per l’ultima volta chiamammo “il potere”.
Era tempo di saldi.

(Giovanni Bonfante)

mercoledì 6 aprile 2016

copertina senza un libro


L'ho fatta stamattina ma non ho ancora un testo a cui abbinarla. Un po' Vintange Violence di John Cale un po' Mimmo Rotella.

venerdì 1 aprile 2016

ménage

Speriamo ci regga il cuore prima di perderci fra le lenzuola
in questo mare senza uscita e senza bussola
dove l’ago l’usavi per risvegliarmi col tormento la voglia
come fanno i bambini insonni. Mi ci hai portato
a suo tempo asserendo che un divano, un tavolo non sono
che trespoli per uccelli già pronti a spiccare il volo
bambino io stesso e colto nelle mie falle di mezz’uomo
e un letto, un letto prediletto, è uno spazio bianco e ginnico
perfetto, in cui disegnare meglio il tuo capriccio con le gambe
dove l’amore – non si dovesse scriverlo per noi che lo scriviamo –
sarebbe meglio farlo, farlo sempre, senza pace, senza fine,
senza perdere altro tempo. Scialuppa in alto mare e sale
per scaldare le ferite, cauterizzare il sangue con l’acqua.
Di te sapevo dall’inizio che una donna coi tacchi che mi supera
in altezza non poteva che portarmi al desiderio innaturale
di scoparla come i cani. E ora che il cuore l’hai gettato
in poltiglia coi vetri e le parole in polvere perché mangiassi
da terra la tua cruda vendetta, mi ritrovo qui ferito
straziato nelle viscere a invocare il tuo morso che mi laceri
la gola, liberandomi la voce dal dolore. Pietà per i poeti
e per gli amanti, per i cani senza cuore. Perché un amore
come il nostro, irripetibile, sognato, è fatto più di strazio
che di letto, ma resta a letto confinato perché lo strazio
è ovunque, meno dove lo ficchiamo.