Uno dei capitoli più belli del Partigiano Johnny è il XXXVII, il capitolo della vigilia di Natale. I partigiani sono dispersi sulle langhe nell’ultimo tremendo inverno prima del grande attacco organizzato con americani e inglesi, e Johnny ormai rimasto solo a guardia della sua collina ritrova Marisa (nome di battaglia Sonia), partigiana che lo aveva affascinato ma che durante una missione è stata fatta prigioniera dai fascisti i quali l’hanno violentata. Marisa gli comunica che dopo quell’esperienza è rotta dentro e non vorrà mai più avere un uomo accanto, gli chiede il favore di riaccompagnarla da sua madre e gli rivela che anche Ettore, cugino e amico di Johnny anch’egli partigiano catturato, presto sarà fucilato. Johnny ha un moto di disperazione e per la prima volta, in un romanzo di quasi ottocento pagine, di scoramento. – Io mollo, si dice a voce alta nella solitudine delle colline nere, io non ce la faccio, ho dato tutto ciò che avevo e ho perso ogni cosa, ogni amico, e sono rimasto da solo ad affrontare l’inverno su queste colline di morte. – Viene però salvato da un contadino che incontra e gli offre del pane con pancetta, il suo pasto di Natale, e poi andando a messa, da due compagni di lotta che lo invitato a una piccola festa per approfittare del calore della casa. Johnny, avvolto nel calore, valuta se nascondersi lì e salvarsi o ritornare alla solitudine della collina, proprio ora che sta nevicando e l’inverno si prospetta più duro, ma ritrovata la lucidità, o meglio ancora la lucida serenità della morte che è necessaria ad ogni partigiano, sceglie di risalire in collina, a cui ormai appartiene anche lui: è l’ingresso spettrale ma deciso di Johnny nello stato di premorte di ogni eroe, la sua discesa nell’Ade. È questo il vero finale del libro, che anticipa gli ultimi capitoli dove, non sapendo decidersi, Fenoglio proporrà due versioni: in una Johnny si salva, in un’altra muore in azione. Ma qui noi sappiamo che poco importa, perché Johnny per quanto apparentemente vivo, è pure già morto, non perché estraneo alla vita che sente ancora intensamente, ma per più alto senso del dovere e dell’appartenenza a un’ideale; così per ideale ha scelto da che parte stare, quella dei morti per loro scelta, i morti sulle colline della resistenza, i suoi cari fratelli morti che lo richiamano alla neve. “Lo speciale Natale della Langa era davanti a lui, nei suoi occhi, in tutta la sua appalling [spaventosa] e fascinante nudità, ed egli vi marciò incontro con un fermo passo”. E leggendolo mi veniva da pensare che un capitolo così, così pieno di paura, di morte e di fantasmi, soltanto nello spazio vuoto del Natale lo si poteva scrivere.
Poesie, pensieri e fotografie di Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, in arte Antonio Lillo ovvero Antonio Hammett
venerdì 23 dicembre 2022
lunedì 10 ottobre 2022
ringraziate che sia in russia
mercoledì 5 ottobre 2022
coscienza fiscale
Da quando hanno eletto la Meloni – che come mi ricordavano oggi in banca ha la mia stessa età con uno scarto di 10 giorni – mi sono messo a rileggere Il partigiano Johnny, chissà perché. Scrittura tostissima ma molto creativa, dialoghi bellissimi, squarci di ironia dirompente. Come quando (cap. 6) i partigiani, che sono cenciosi e banditeschi nell’aspetto, armati di fucile ma con la scabbia addosso, suscitando ammirazione e ribrezzo insieme, scendono a valle a requisire il cibo ai contadini. I quali provano a patteggiare perché se gli portano via tutto poi i tedeschi li accusano di collaborazionismo e quindi li puniscono. I contadini dicono loro: vi prego portateci via metà della roba, così l’altra metà la portano via i tedeschi e noi salviamo la pelle. I partigiani non ci stanno a dividersi la roba dei contadini coi tedeschi e si portano via tutto. Ma sono migliori dei tedeschi e quindi sono onesti: portando via un vitello per mangiarselo, al contadino lasciano un buono di requisizione, un pezzo di carta firmato in cui dicono che gli hanno preso un vitello. Dopo la guerra, quando avremo vinto, tu vai pure al primo comando che trovi, mostragli questo foglio e quelli in cambio del vitello ti daranno dei soldi. Perché noi partigiani siamo onesti. Il contadino li guarda così cenciosi e banditeschi, armati di fucile ma con la scabbia addosso, non gli crede e risponde a tono: questo pezzo di carta per me non vale nulla, mi ci pulisco il… Allora i partigiani lo afferrano, lo picchiano, e si portano via il vitello senza lasciargli nemmeno il buono. E Johnny, disgustato dal comportamento dei suoi stessi compagni si chiede: Era la lenta, forcipata nascita della coscienza fiscale in Italia?
venerdì 15 aprile 2022
scrittore postumo
Leggendo Il Libro di Johnny di Beppe Fenoglio, volume a cura di Gabriele Pedullà che racchiude l’originale versione unitaria di Primavera di Bellezza del 1959 e del postumo Partigiano Johnny del 1968, viene fuori come la nostra Resistenza viene innescata da un’assenza. Nel paese c’erano già dei fenomeni di opposizione al regime ma questi erano per lo più ininfluenti, emarginati e disorganizzati e da soli non sarebbero bastati a far scaturire la scintilla della rivolta. Tutto è descritto con grande intensità alla fine della prima parte di quel libro, quando il paese cade in confusione per l’arresto di Mussolini, lo sbarco degli Alleati e il conseguente ritiro dei tedeschi non più “amici”. L’esercito italiano letteralmente si squaglia per l’improvvisa fuga del re dalla capitale, il quale re abbandona la popolazione al suo destino con deportazioni in massa e stragi da parte dei tedeschi, con gli americani che risalgono la penisola da liberatori e da conquistatori insieme, le città bombardate. Nel disordine creato dall’assenza dello Stato scoppia la guerra civile nel nostro paese con una parte degli italiani che si sente tradita e segue Mussolini nella repubblica di Salò e un’altra parte che si sente altrettanto tradita e crea una prima forma di resistenza mettendo insieme, da sud a nord, volontari di diversa estrazione sociale e fede politica. Altra parola centrale di questa storia, dunque, è “tradimento”. Ancora mi accorgo, leggendolo, di come la guerra civile fu da entrambe le parti un movimento giovanile. Un quarantenne era già visto con sospetto, come portatore di qualcosa di corrotto dalla passata stagione politica. Furono i giovani a vergognarsi di chi erano e a cercare di creare un nuovo ordine italiano, spinti dalla delusione e dalla rabbia. Chi scegliendo la via delle montagne (come il Johnny o il Milton di Fenoglio), chi sbandando percorso a destra (come il Marco di Tiro al piccione di Montaldo). Chi persino restando per sempre nel dubbio amletico di dove stare (come il Corrado della Casa in collina di Pavese) e finendo per non sentirsi più parte di niente. Qualcuno collaborò come poteva, ma la maggior parte dei cittadini avviliti da anni di menzogne e privazioni, non ebbe dubbi sul da farsi: si chiuse in casa aspettando che facessero gli altri anche per loro, per capire quali bandiere sventolare dai balconi dopo la fine dei combattimenti, cercando di sopravvivere come potevano, perché restare vivi era, in fondo, la cosa più importante. Anche così le istanze di quei gruppi di giovani vennero tradite una seconda volta, perché alla fine della guerra non ci fu nessun vero rinnovamento italiano, ma soltanto un più moderato, per quanto necessario, cambio di pelle (La pelle, di Malaparte, altro titolo fondamentale di quegli anni). Noi il 25 aprile ricordiamo il sacrificio di alcuni di quei ragazzi, e deprechiamo quello dei loro avversari, ma nella sostanza condividiamo l’identica materia degli altri, dei più vecchi trasformisti per necessità, quelli che camparono più a lungo*. “L’Italia ripudia la guerra” ricordava giustamente il segretario dell’ANPI. Ma io ho pensato al povero Fenoglio a cui gli editori rispondevano che coi quei suoi “cartonacci” sulla Resistenza, ad appena dieci anni dalla fine della guerra, aveva già rotto i maroni. Era una storia vecchia quella, a cui nessuno voleva più pensare, e infatti Fenoglio rimane uno scrittore postumo.
*Non è per forza un male, ma ogni tanto me lo sento dentro anch’io un vuoto, la mancanza di quella follia ostinata che qualcuno chiama ideale (un ideale per cui anche potrei morire) e che fa la differenza fra chi partecipa alla storia e chi la guarda passare. Io ad oggi non ho fatto altro che guardare e parlare, parlare e scrivere, sperando di non eccedere in retorica, e tutto questo non mi fa sentire migliore degli altri, soltanto un pochino più gretto. Resto umano, come diceva qualcuno, ci provo, ma sento che ormai restare umani non basta.
giovedì 14 ottobre 2021
chiedi a stalin
giovedì 25 aprile 2019
fenoglio
mercoledì 15 agosto 2018
inseguire la propria storia
sabato 16 aprile 2016
come si fa a saperlo
mercoledì 29 aprile 2015
messaggio di speranza a chi scrive
venerdì 20 maggio 2011
la paga del sabato

Ecco, lo leggo e penso che, secondo me, è una buona opera prima, un romanzo bello e teso, un noir ambientato nelle Langhe sorretto da una scrittura solida e asciutta, che scorre perfetto fino al suo tragico finale, come un meccanismo a orologeria. Non il suo capolavoro ma meritevole di una pubblicazione sì. Penso anche che, probabilmente, questa è la mia opinione a posteriori, ma sono pure convinto che Fenoglio non fu mai pienamente compreso dai suoi contemporanei, neppure da Calvino che gli fu amico.
I tre libri che riuscì a pubblicare in vita furono accolti spesso e volentieri da stroncature od opinioni di sufficienza dalla critica (straordinario il caso del “rimprovero” di Vittorini pubblicato come quarta di copertina a La malora, suo secondo libro). Le case editrici invece di incoraggiarlo lo influenzarono negativamente per i propri dubbi in merito alla bontà delle sue sperimentazioni (tanto da condizionarlo a non terminare mai la seconda e fondamentale parte de Il partigiano Johnny). E in effetti la maggior parte del suo lavoro è venuta alla luce postuma, spesso frammentaria, imponendosi all’attenzione del pubblico lentamente, per il suo solo valore letterario.
Tanto che Fenoglio è considerato da molti un esempio di scrittore puro, dedito unicamente alla sua scrittura. Cosa fondamentalmente vera, se non fosse che pure Fenoglio, come ogni uomo, avrebbe desiderato talvolta una conferma, un riconoscimento del suo lavoro artistico, che di rado gli arrivò. E in questo Fenoglio, oggi considerato un padre simbolico da molti giovani scrittori che si ritrovano soli contro un mercato talmente oscuro, ingordo e ingombrante da paragonarsi a un mostro mitologico, affamato di vittime sacrificate al suo altare, fu uno sconfitto. Di una dignità enorme, unica, ma sconfitto.
Penso a Fenoglio, sconfitto e incompreso dalla critica e dai suoi stessi colleghi, mentre leggo il suo primo romanzo, pubblicato nel 1969, sei anni dopo la sua morte. E me lo immagino giovane e pieno di sogni e speranze, apprestarsi a metterlo giù, su carta, e lavorarci di lima e senza sosta fino alla perfezione. E penso anche a Vittorini, che nel suo rigore, se vedesse quello che è diventato oggi il mercato editoriale, dove la letteratura e la bella scrittura sono bandite, o guardate con sospetto, a meno che non abbiano in sé quel po’ di “cartonaccio cinematografico” necessario a ricavarne poi un film per la stagione successiva, ecco, credo davvero che si rivolterebbe nella tomba, disgustato.