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venerdì 23 dicembre 2022

lo speciale natale della langa

 Uno dei capitoli più belli del Partigiano Johnny è il XXXVII, il capitolo della vigilia di Natale. I partigiani sono dispersi sulle langhe nell’ultimo tremendo inverno prima del grande attacco organizzato con americani e inglesi, e Johnny ormai rimasto solo a guardia della sua collina ritrova Marisa (nome di battaglia Sonia), partigiana che lo aveva affascinato ma che durante una missione è stata fatta prigioniera dai fascisti i quali l’hanno violentata. Marisa gli comunica che dopo quell’esperienza è rotta dentro e non vorrà mai più avere un uomo accanto, gli chiede il favore di riaccompagnarla da sua madre e gli rivela che anche Ettore, cugino e amico di Johnny anch’egli partigiano catturato, presto sarà fucilato. Johnny ha un moto di disperazione e per la prima volta, in un romanzo di quasi ottocento pagine, di scoramento. – Io mollo, si dice a voce alta nella solitudine delle colline nere, io non ce la faccio, ho dato tutto ciò che avevo e ho perso ogni cosa, ogni amico, e sono rimasto da solo ad affrontare l’inverno su queste colline di morte. – Viene però salvato da un contadino che incontra e gli offre del pane con pancetta, il suo pasto di Natale, e poi andando a messa, da due compagni di lotta che lo invitato a una piccola festa per approfittare del calore della casa. Johnny, avvolto nel calore, valuta se nascondersi lì e salvarsi o ritornare alla solitudine della collina, proprio ora che sta nevicando e l’inverno si prospetta più duro, ma ritrovata la lucidità, o meglio ancora la lucida serenità della morte che è necessaria ad ogni partigiano, sceglie di risalire in collina, a cui ormai appartiene anche lui: è l’ingresso spettrale ma deciso di Johnny nello stato di premorte di ogni eroe, la sua discesa nell’Ade. È questo il vero finale del libro, che anticipa gli ultimi capitoli dove, non sapendo decidersi, Fenoglio proporrà due versioni: in una Johnny si salva, in un’altra muore in azione. Ma qui noi sappiamo che poco importa, perché Johnny per quanto apparentemente vivo, è pure già morto, non perché estraneo alla vita che sente ancora intensamente, ma per più alto senso del dovere e dell’appartenenza a un’ideale; così per ideale ha scelto da che parte stare, quella dei morti per loro scelta, i morti sulle colline della resistenza, i suoi cari fratelli morti che lo richiamano alla neve. “Lo speciale Natale della Langa era davanti a lui, nei suoi occhi, in tutta la sua appalling [spaventosa] e fascinante nudità, ed egli vi marciò incontro con un fermo passo”. E leggendolo mi veniva da pensare che un capitolo così, così pieno di paura, di morte e di fantasmi, soltanto nello spazio vuoto del Natale lo si poteva scrivere.

lunedì 10 ottobre 2022

ringraziate che sia in russia

…Fred cominciò: – Hanno ammazzato il nostro compagno, e preso un altro. Il nostro compagno Tito è morto. Tito è morto. – E come gli chiedevano dove e come, allora anche Johnny ci si mise, e disse l’imboscata, e con un gesto infantile, proprio dei bambini richiesti di una adulta spiegazione, tendeva la mano [e] si sorprese a dire le stesse parole di Fred, col medesimo tono: – Hanno ammazzato il nostro compagno, e preso un altro. Il nostro compagno Tito è morto. Tito è morto. – Allora una vecchia si enucleò dal muro dei suoi figli e generi, spostandosi un lattante nipote da uno all’altro seno con un’antica destrezza, e disse: – Ed io che ho un figlio disperso in Russia! – Fred allargò le braccia a croce nel vuoto cielo e disse: – Ringraziate che sia in Russia. Vedete che cosa capita a noi che siamo in Italia.

[Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, cap. 10]

mercoledì 5 ottobre 2022

coscienza fiscale

 Da quando hanno eletto la Meloni – che come mi ricordavano oggi in banca ha la mia stessa età con uno scarto di 10 giorni – mi sono messo a rileggere Il partigiano Johnny, chissà perché. Scrittura tostissima ma molto creativa, dialoghi bellissimi, squarci di ironia dirompente. Come quando (cap. 6) i partigiani, che sono cenciosi e banditeschi nell’aspetto, armati di fucile ma con la scabbia addosso, suscitando ammirazione e ribrezzo insieme, scendono a valle a requisire il cibo ai contadini. I quali provano a patteggiare perché se gli portano via tutto poi i tedeschi li accusano di collaborazionismo e quindi li puniscono. I contadini dicono loro: vi prego portateci via metà della roba, così l’altra metà la portano via i tedeschi e noi salviamo la pelle. I partigiani non ci stanno a dividersi la roba dei contadini coi tedeschi e si portano via tutto. Ma sono migliori dei tedeschi e quindi sono onesti: portando via un vitello per mangiarselo, al contadino lasciano un buono di requisizione, un pezzo di carta firmato in cui dicono che gli hanno preso un vitello. Dopo la guerra, quando avremo vinto, tu vai pure al primo comando che trovi, mostragli questo foglio e quelli in cambio del vitello ti daranno dei soldi. Perché noi partigiani siamo onesti. Il contadino li guarda così cenciosi e banditeschi, armati di fucile ma con la scabbia addosso, non gli crede e risponde a tono: questo pezzo di carta per me non vale nulla, mi ci pulisco il… Allora i partigiani lo afferrano, lo picchiano, e si portano via il vitello senza lasciargli nemmeno il buono. E Johnny, disgustato dal comportamento dei suoi stessi compagni si chiede: Era la lenta, forcipata nascita della coscienza fiscale in Italia?

venerdì 15 aprile 2022

scrittore postumo

Leggendo Il Libro di Johnny di Beppe Fenoglio, volume a cura di Gabriele Pedullà che racchiude l’originale versione unitaria di Primavera di Bellezza del 1959 e del postumo Partigiano Johnny del 1968, viene fuori come la nostra Resistenza viene innescata da un’assenza. Nel paese c’erano già dei fenomeni di opposizione al regime ma questi erano per lo più ininfluenti, emarginati e disorganizzati e da soli non sarebbero bastati a far scaturire la scintilla della rivolta. Tutto è descritto con grande intensità alla fine della prima parte di quel libro, quando il paese cade in confusione per l’arresto di Mussolini, lo sbarco degli Alleati e il conseguente ritiro dei tedeschi non più “amici”. L’esercito italiano letteralmente si squaglia per l’improvvisa fuga del re dalla capitale, il quale re abbandona la popolazione al suo destino con deportazioni in massa e stragi da parte dei tedeschi, con gli americani che risalgono la penisola da liberatori e da conquistatori insieme, le città bombardate. Nel disordine creato dall’assenza dello Stato scoppia la guerra civile nel nostro paese con una parte degli italiani che si sente tradita e segue Mussolini nella repubblica di Salò e un’altra parte che si sente altrettanto tradita e crea una prima forma di resistenza mettendo insieme, da sud a nord, volontari di diversa estrazione sociale e fede politica. Altra parola centrale di questa storia, dunque, è “tradimento”. Ancora mi accorgo, leggendolo, di come la guerra civile fu da entrambe le parti un movimento giovanile. Un quarantenne era già visto con sospetto, come portatore di qualcosa di corrotto dalla passata stagione politica. Furono i giovani a vergognarsi di chi erano e a cercare di creare un nuovo ordine italiano, spinti dalla delusione e dalla rabbia. Chi scegliendo la via delle montagne (come il Johnny o il Milton di Fenoglio), chi sbandando percorso a destra (come il Marco di Tiro al piccione di Montaldo). Chi persino restando per sempre nel dubbio amletico di dove stare (come il Corrado della Casa in collina di Pavese) e finendo per non sentirsi più parte di niente. Qualcuno collaborò come poteva, ma la maggior parte dei cittadini avviliti da anni di menzogne e privazioni, non ebbe dubbi sul da farsi: si chiuse in casa aspettando che facessero gli altri anche per loro, per capire quali bandiere sventolare dai balconi dopo la fine dei combattimenti, cercando di sopravvivere come potevano, perché restare vivi era, in fondo, la cosa più importante. Anche così le istanze di quei gruppi di giovani vennero tradite una seconda volta, perché alla fine della guerra non ci fu nessun vero rinnovamento italiano, ma soltanto un più moderato, per quanto necessario, cambio di pelle (La pelle, di Malaparte, altro titolo fondamentale di quegli anni). Noi il 25 aprile ricordiamo il sacrificio di alcuni di quei ragazzi, e deprechiamo quello dei loro avversari, ma nella sostanza condividiamo l’identica materia degli altri, dei più vecchi trasformisti per necessità, quelli che camparono più a lungo*. “L’Italia ripudia la guerra” ricordava giustamente il segretario dell’ANPI. Ma io ho pensato al povero Fenoglio a cui gli editori rispondevano che coi quei suoi “cartonacci” sulla Resistenza, ad appena dieci anni dalla fine della guerra, aveva già rotto i maroni. Era una storia vecchia quella, a cui nessuno voleva più pensare, e infatti Fenoglio rimane uno scrittore postumo.


*Non è per forza un male, ma ogni tanto me lo sento dentro anch’io un vuoto, la mancanza di quella follia ostinata che qualcuno chiama ideale (un ideale per cui anche potrei morire) e che fa la differenza fra chi partecipa alla storia e chi la guarda passare. Io ad oggi non ho fatto altro che guardare e parlare, parlare e scrivere, sperando di non eccedere in retorica, e tutto questo non mi fa sentire migliore degli altri, soltanto un pochino più gretto. Resto umano, come diceva qualcuno, ci provo, ma sento che ormai restare umani non basta.

giovedì 14 ottobre 2021

chiedi a stalin

Avevo in testa una vecchia foto di Lisetta Carmi e volevo scrivere un post sui portuali che protestano, ma poi mi sono vergognato di dire troppe stupidaggini, perché sono giorni che ho perduto la bussola di dove siamo finiti tutti e nel disordine crescente non so più dove sto io rispetto a loro e dove stanno loro rispetto al resto del Paese. Forse non lo sa più nemmeno il Paese dove è finito e contro chi sta combattendo. Il ministro Orlando – che sbaglia le parole e paragona la proposta di tamponi gratuiti a un’ammissione che chi si è vaccinato ha fatto male, ribadendo così l’azione vessatoria del Governo, e come se il buon senso non c’entrasse nulla in queste scelte – di certo non lo sa. Da una parte si dice che il pericolo, a parte “pochi” estremisti, è scampato; dall’altra i “pochi” estremisti sono milioni di persone a cui quasi si nega la ragione, o li si offende, tutti mostri, bruti, fasci, tutti scemi. Tutto ciò che nega i miei valori. Da una parte difendiamo l’accoglienza e ci diciamo diversi da Salvini, dall’altra postuliamo la censura negli stessi termini e con lo stesso linguaggio di Salvini. Accogliamo i più deboli e censuriamo i vili, o tutti quelli che ci stanno sulle balle. Ma se i vili sono quattro milioni di lavoratori non vaccinati, io, che mi dico di sinistra, da che parte devo stare? Coi lavoratori o col Governo? Una volta lessi un racconto, se non sbaglio di Fenoglio, in cui due amici partigiani parlavano dello stesso dubbio. Uno dei due si confidava con l’altro che gli rispondeva che un antifascista non è un cristiano, e se è cristiano non dovrebbe stare in montagna, perché un cristiano porge l’altra guancia, un antifascista spara al nemico. E quando non sai chi è il nemico, chiedeva il primo? Allora chiedi a Stalin, diceva il secondo. Purtroppo siamo finiti male, e l’unico Stalin che conosco, Peppe Stalin per gli amici, non mi toglierebbe dal dubbio, al massimo mi offrirebbe una birra. Ma poi penso anche che chi protesta di certo non aspetta me o che risolva i miei dubbi, né il permesso di nessuno, perché se aspettasse il permesso di qualcuno per lamentarsi, allora non avrebbe più senso protestare, sarebbe un semplice corteo che non porta a nessun vero cambiamento.

giovedì 25 aprile 2019

fenoglio

Ci pensavo stamattina per la prima volta, se amo questa festa del 25 aprile non è per tutto ciò che simboleggia: la libertà, la lotta, la giustizia, lo stare o no dalla parte giusta, le luci e le ombre, la retorica, i monumenti, questo e quello. Sono tutte cose giuste, eh. Ma se la amo col cuore, se provo empatia e simpatia, se mi commuovo a pensarci e ripensarci, è perché l’ho letta nei libri di Fenoglio, in quelli di Pavese, di Calvino, e l’ho vista nei film di Rossellini, di Monicelli, di Scola, in certe scene di Totò. Ogni anno mi accorgo che, nonostante le manifestazioni, le polemiche, l’accanimento terapeutico di alcuni e tutti i bellissimi discorsi infiorettati di ideali, ogni anno si perde un pezzettino di memoria, un pezzo di sincero sentimento, tutto diventa parole ma senza cuore, e questo secondo me succede perché si dicono un sacco di bellissime parole ma non si legge mai abbastanza. Perché non c’è liberazione più grande di quella che viene dai libri, e non c’è liberazione possibile se non conosci Raul, Blister, Milton, Sceriffo, che poi sono tutti quei nomi incisi nella pietra dei monumenti ma fatti di carne e di sangue, con le loro paure, la rabbia, il piscio e il vomito, gli amori da ventenni che vengono sempre a mettere sgambetto agli ideali. Ecco, nel giorno della liberazione mi piacerebbe tanto che si facessero meno bellissimi proclami su cos’è o non è la libertà e si leggessero più storie di Fenoglio.

mercoledì 15 agosto 2018

inseguire la propria storia

Ad anni di distanza dalla sua scoperta, continuo a trovare affascinante la vicenda editoriale di Beppe Fenoglio. Che oggi viene considerato uno dei maggiori scrittori italiani del ‘900, ma all’epoca veniva sottovalutato dai suoi contemporanei, persino da molti esponenti del settore editoriale, con gravi ripercussioni sulla sua autostima. Più di tutto trovo avvincente la vicenda del romanzo sulla Guerra. Fenoglio sentiva di avere le capacità e l’ambizione di diventare il cantore assoluto della Resistenza, colui che avrebbe messo un punto definitivo a quella storia. Con questo spirito cominciò a scrivere la vita del partigiano Johnny, di cui realizzò due diverse versioni, prima di abbandonare frettolosamente il progetto. Di quel libro epico, fluviale («troppo lungo!» gli disse Garzanti) venne pubblicata solo la prima parte riveduta, col titolo Primavera di bellezza. Intanto Fenoglio era stato catturato dall’intuizione di un nuovo romanzo assai più snello e per certi versi meno introspettivo, il cui protagonista diventava Milton, personaggio assai più duro, pratico, e meno snob di Johnny. Anche questo libro, proprio come Il partigiano Johnny, sarebbe stato pubblicato dopo la morte di Fenoglio, col titolo L’imboscata. Perché Fenoglio scrive il romanzo e ne parla entusiasticamente a Garzanti per una prossima pubblicazione, ma all’ultimo minuto, prima di concluderlo, ha una nuova intuizione: molla tutto, tranne Milton, e cambia completamente storia, trasformandola in un inseguimento amoroso, folle, inserito all’interno della Guerra. Inseguimento a cui Calvino non farà fatica ad attribuire una matrice ariostesca. Riscritto in tre versioni, il romanzo vedrà la luce dopo la morte di Fenoglio, col titolo Una questione privata. Eppure la vicenda di Milton costretto, dal suo bisogno di sapere, a inseguire l’ombra di Fulvia, è un po’ anche la vicenda dello stesso Fenoglio, che inseguiva la sua storia, la storia a cui sentiva di dover dare una voce, metterle un punto per poi passare ad altro, e che invece, per amore, rifiutava di farsi prendere e concludere.

sabato 16 aprile 2016

come si fa a saperlo

Milton finì di legarsi le scarpe, inglesi, di pelle di foca, di grande misura, fin dall’origine piegate a barca. 
Poi si drizzò, le si avvicinò e le sfiorò con le labbra una spalla. – Non hai freddo? Non aveva freddo, ma si portò una mano sulla spalla, là dove s’erano posate le labbra di lui, quasi a ritenere, fissare il bacio. 
Disse poi: – A momenti non litighiamo? E dopo quel che abbiamo fatto. 
– È colpa mia, – disse lui in fretta. 
– L’abbiamo fatto, Milton, – disse lei adagio. 
– L’abbiamo fatto. 
– Tu lo sapevi che l’avremmo fatto? 
– Ci speravo. 
– Solamente? 
– Ci speravo moltissimo. 
– E non sapevi che l’avremmo fatto? 
– E come si fa a saperlo di sicuro. La cosa dipende talmente da voi. Da voi donne. 

[Beppe Fenoglio, Qualcosa ci hai perso, in Tutti i racconti, Einaudi 2007] 

Lo leggevo stamattina e ho pensato che qui si sente fortissima l’influenza di Hemingway sulla scrittura di Fenoglio.

mercoledì 29 aprile 2015

messaggio di speranza a chi scrive

Leggo le prime stupefacenti pagine della nuova edizione del Libro di Johnny di Beppe Fenoglio (Einaudi 2015), quelle all’epoca censurate da Livio Garzanti perché ritenute lente, e ne ho conforto. Magari è ingiusto. Fenoglio in vita soffrì come pochi per tanti rifiuti: praticamente ogni suo libro fu sottoposto a un attento processo di revisione editoriale o rifiutato con sufficienza, per poi essere, dopo la morte, osannato come capolavoro. Eppure penso, in maniera forse puerile, che se anche è vero – ed è vero – che l’80% di chi scrive può solo sognare di diventare uno scrittore, ma non lo sarà mai per mancanza di talento o di stile oppure della giusta disciplina, è anche vero che apprendere come La paga del sabato o La malora la prima versione di Primavera di bellezza non furono capiti o abbastanza apprezzati da gente come Vittorini, Garzanti o Citati, al punto che spesso Fenoglio, rassegnato, ricacciava per sempre i manoscritti in un cassetto, offre oggi, a chi scrive, un barlume di coraggio in più e la speranza che forse, per una volta, una sola volta, non è chi scrive a non andar bene per LORO, ma loro, invece, a non andar bene per il libro che, chi scrive, sta sognando.

venerdì 20 maggio 2011

la paga del sabato

Leggo La paga del sabato, primo romanzo in assoluto scritto da Beppe Fenoglio, inviato a Einaudi nel 1950 e rifiutato da Elio Vittorini perché ritenuto un “cartonaccio cinematografico” senza rimedio, e nonostante le resistenze di Calvino, che invece lo apprezzava, pur ammettendone i difetti.
Ecco, lo leggo e penso che, secondo me, è una buona opera prima, un romanzo bello e teso, un noir ambientato nelle Langhe sorretto da una scrittura solida e asciutta, che scorre perfetto fino al suo tragico finale, come un meccanismo a orologeria. Non il suo capolavoro ma meritevole di una pubblicazione sì. Penso anche che, probabilmente, questa è la mia opinione a posteriori, ma sono pure convinto che Fenoglio non fu mai pienamente compreso dai suoi contemporanei, neppure da Calvino che gli fu amico.
I tre libri che riuscì a pubblicare in vita furono accolti spesso e volentieri da stroncature od opinioni di sufficienza dalla critica (straordinario il caso del “rimprovero” di Vittorini pubblicato come quarta di copertina a La malora, suo secondo libro). Le case editrici invece di incoraggiarlo lo influenzarono negativamente per i propri dubbi in merito alla bontà delle sue sperimentazioni (tanto da condizionarlo a non terminare mai la seconda e fondamentale parte de Il partigiano Johnny). E in effetti la maggior parte del suo lavoro è venuta alla luce postuma, spesso frammentaria, imponendosi all’attenzione del pubblico lentamente, per il suo solo valore letterario.
Tanto che Fenoglio è considerato da molti un esempio di scrittore puro, dedito unicamente alla sua scrittura. Cosa fondamentalmente vera, se non fosse che pure Fenoglio, come ogni uomo, avrebbe desiderato talvolta una conferma, un riconoscimento del suo lavoro artistico, che di rado gli arrivò. E in questo Fenoglio, oggi considerato un padre simbolico da molti giovani scrittori che si ritrovano soli contro un mercato talmente oscuro, ingordo e ingombrante da paragonarsi a un mostro mitologico, affamato di vittime sacrificate al suo altare, fu uno sconfitto. Di una dignità enorme, unica, ma sconfitto.
Penso a Fenoglio, sconfitto e incompreso dalla critica e dai suoi stessi colleghi, mentre leggo il suo primo romanzo, pubblicato nel 1969, sei anni dopo la sua morte. E me lo immagino giovane e pieno di sogni e speranze, apprestarsi a metterlo giù, su carta, e lavorarci di lima e senza sosta fino alla perfezione. E penso anche a Vittorini, che nel suo rigore, se vedesse quello che è diventato oggi il mercato editoriale, dove la letteratura e la bella scrittura sono bandite, o guardate con sospetto, a meno che non abbiano in sé quel po’ di “cartonaccio cinematografico” necessario a ricavarne poi un film per la stagione successiva, ecco, credo davvero che si rivolterebbe nella tomba, disgustato.