Leggendo Il Libro di Johnny di Beppe Fenoglio, volume a cura di Gabriele Pedullà che racchiude l’originale versione unitaria di Primavera di Bellezza del 1959 e del postumo Partigiano Johnny del 1968, viene fuori come la nostra Resistenza viene innescata da un’assenza. Nel paese c’erano già dei fenomeni di opposizione al regime ma questi erano per lo più ininfluenti, emarginati e disorganizzati e da soli non sarebbero bastati a far scaturire la scintilla della rivolta. Tutto è descritto con grande intensità alla fine della prima parte di quel libro, quando il paese cade in confusione per l’arresto di Mussolini, lo sbarco degli Alleati e il conseguente ritiro dei tedeschi non più “amici”. L’esercito italiano letteralmente si squaglia per l’improvvisa fuga del re dalla capitale, il quale re abbandona la popolazione al suo destino con deportazioni in massa e stragi da parte dei tedeschi, con gli americani che risalgono la penisola da liberatori e da conquistatori insieme, le città bombardate. Nel disordine creato dall’assenza dello Stato scoppia la guerra civile nel nostro paese con una parte degli italiani che si sente tradita e segue Mussolini nella repubblica di Salò e un’altra parte che si sente altrettanto tradita e crea una prima forma di resistenza mettendo insieme, da sud a nord, volontari di diversa estrazione sociale e fede politica. Altra parola centrale di questa storia, dunque, è “tradimento”. Ancora mi accorgo, leggendolo, di come la guerra civile fu da entrambe le parti un movimento giovanile. Un quarantenne era già visto con sospetto, come portatore di qualcosa di corrotto dalla passata stagione politica. Furono i giovani a vergognarsi di chi erano e a cercare di creare un nuovo ordine italiano, spinti dalla delusione e dalla rabbia. Chi scegliendo la via delle montagne (come il Johnny o il Milton di Fenoglio), chi sbandando percorso a destra (come il Marco di Tiro al piccione di Montaldo). Chi persino restando per sempre nel dubbio amletico di dove stare (come il Corrado della Casa in collina di Pavese) e finendo per non sentirsi più parte di niente. Qualcuno collaborò come poteva, ma la maggior parte dei cittadini avviliti da anni di menzogne e privazioni, non ebbe dubbi sul da farsi: si chiuse in casa aspettando che facessero gli altri anche per loro, per capire quali bandiere sventolare dai balconi dopo la fine dei combattimenti, cercando di sopravvivere come potevano, perché restare vivi era, in fondo, la cosa più importante. Anche così le istanze di quei gruppi di giovani vennero tradite una seconda volta, perché alla fine della guerra non ci fu nessun vero rinnovamento italiano, ma soltanto un più moderato, per quanto necessario, cambio di pelle (La pelle, di Malaparte, altro titolo fondamentale di quegli anni). Noi il 25 aprile ricordiamo il sacrificio di alcuni di quei ragazzi, e deprechiamo quello dei loro avversari, ma nella sostanza condividiamo l’identica materia degli altri, dei più vecchi trasformisti per necessità, quelli che camparono più a lungo*. “L’Italia ripudia la guerra” ricordava giustamente il segretario dell’ANPI. Ma io ho pensato al povero Fenoglio a cui gli editori rispondevano che coi quei suoi “cartonacci” sulla Resistenza, ad appena dieci anni dalla fine della guerra, aveva già rotto i maroni. Era una storia vecchia quella, a cui nessuno voleva più pensare, e infatti Fenoglio rimane uno scrittore postumo.
*Non è per forza un male, ma ogni tanto me lo sento dentro anch’io un vuoto, la mancanza di quella follia ostinata che qualcuno chiama ideale (un ideale per cui anche potrei morire) e che fa la differenza fra chi partecipa alla storia e chi la guarda passare. Io ad oggi non ho fatto altro che guardare e parlare, parlare e scrivere, sperando di non eccedere in retorica, e tutto questo non mi fa sentire migliore degli altri, soltanto un pochino più gretto. Resto umano, come diceva qualcuno, ci provo, ma sento che ormai restare umani non basta.
Nessun commento:
Posta un commento