Io imparavo con lui tutto un dizionario nuovo per me, ma necessario, che comprendeva termini medici e scadenze improrogabili, i controlli del lunedì in ospedale, le molte tappe da affrontare per arrivare a una fine lenta e dignitosa, la varia gamma dei suoi stati d’animo o dolori, che si esprimevano in pianti muti ormai ma per diversi motivi, certuni stupidi, quasi tutti relativi alla sua frustrazione e impotenza.
Gli mancava la forza nelle mani, non riusciva nemmeno ad avvitare il barattolo dei biscotti, o abbottonarsi i polsini. Il collo gli cedeva senza molla. Annaspava sulle gambe spente e piano piano, pensai, mentre cercava di respirare, si stava ripiegando su se stesso simile a una foglia autunnale che ridisegni un cerchio. Ma era in fondo più simile a una lumachina che trasmigri da una casa all’altra portandosi dietro le sue cose.
Io lo accompagnavo per le stanze sorreggendolo per le mani, con la paura che cadesse e ogni sera gli massaggiavo gli arti esangui strofinandoli fra i palmi caldi per dargli sollievo dal primo gelo della morte, così come aveva fatto lui a suo tempo con mio nonno.
Ecco come mio padre mi passava il testimone, depositandosi fra le mie mani. Ero il padre ormai per questo vecchio, ben sapendo come a un certo punto avrei dovuto lasciarlo andare solo, da buon figlio che rimane e seppellisce il padre e fa della sua vita una casa sola.