Mentre studio per la serata di venerdì di Disimpegno, che sarà in parte dedicata a Bartolo Cattafi attraverso un lavoro a tema del jazzista Gianni Gebbia, mi ritrovo a pensare ai tempi creativi di Cattafi poeta. Artista colmo di furori creativi, Cattafi era uno che preso dall’impeto scriveva 200 poesie in un anno, poi faceva silenzio per otto anni (nel senso che in otto anni non prendeva nemmeno la penna in mano, nemmeno per scrivere una lettera), poi il “tappo saltava” di nuovo e ne scrive altre 400 in dieci mesi, per poi fare silenzio per un altro certo numero di anni. Per molti di noi che scriviamo, cresciuti come siamo nell’ideale della parola “scavata nella carne” (Ungaretti) una simile abitudine è vista con forte diffidenza: 400 poesie in meno di un anno è una roba da dilettanti, senza controllo critico, buttate lì senza scavo emotivo o riflessione alcuna. Eppure Cattafi, che era anche pittore e alternava alla creazione in versi quella per immagini, secondo me applicava i tempi della pittura a quelli della scrittura, ovvero non guardava alla poesia come a una “poesia” ma come a un’impressione che in quel preciso momento si traduceva in parole, ma avrebbe potuto esprimersi anche in linee o impasti di colore. Non conosco nessuno che ha mai trovato scorretto un pittore che produce 400 quadri in meno di un anno, anzi, quella è vista come una forma di salute creativa: quello è un artista prolifico, si dirà, e se ha un mercato venderà molto. Chissà perché, invece, per la poesia si applica un filtro così diverso e stringente. Io ad esempio mi ricordo che c’è stato un periodo della mia vita in cui ero molto più prolifico di adesso, e scrivevo anche tre poesie in un giorno, e cambiavo loro le date perché un po’ mi vergognavo, mi sembrava che tre poesie in giorno fossero indice di un’eccessiva faciloneria.
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