Autore che mi ha appena inviato la sua raccolta mi chiama per sollecitarmi alla lettura e al telefono mi decanta non l’intima bellezza dei suoi versi, ma la prefazione di Cristina, della quale mi parla con un tale atteggiamento ossequioso che sulle prime mi viene da chiedergli: ma chi, la Vivinetto? – No, no, lei non la conosce. – Gli dico che in genere in casa editrice avversiamo le prefazioni, al massimo se hanno un senso per l’opera le spostiamo alla fine, come postfazione, ma mai, mai prima del testo. – Lo sento agitarsi dall’altra parte. Per favore, non lo faccia, non lo dica nemmeno per scherzo. La prefazione va davanti per forza! Non lo immagina nemmeno in che guaio mi caccia se la mette dopo! – Ma perché, scusi? Cristina è la sua compagna? – Abbassa la voce per dare gravità alla cosa. Cristina è mia moglie. – Ah, cacchio! – Sì, mi ha spinto lei a chiamarla, mi ha fatto pure l’editing! – Ah, chiaro, ho capito. Senta, io non la invidio proprio, ma non la posso aiutare. Per me fa prima a rivolgersi a un’altra casa editrice, ce ne sono tantissime in giro fra cui scegliere. – E come facciamo con la raccolta che le ho inviato? Non è che la legge? – Ma scherza! La cancello senza nemmeno aprirla! – In questo modo chiudiamo la telefonata. Dopodiché, visto che la curiosità è più forte della parola data, prima di cestinarla do un’occhiata alla raccolta, dedicata a C., di cui ogni verso è scritto per/da/con l’onnipresente Cristina. E in effetti sì, la prefazione è meglio.
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