La settimana è cominciata con la morte di Gegè ed è finita con quella di Gino. Ho letto i ricordi di tanti oggi, ognuno che lo lega a un particolare periodo della sua vita: gli anni in radio, oppure al lavoro come centralinista in ospedale, o prima ancora quando negli anni ’70 suonava le tastiere in un gruppo pop incidendo un 45 giri di successo che gli aveva procurato l’attenzione di un bel po’ di ragazze e una lunga serie di avventure erotiche che qui non si possono dire, ma mi aveva raccontato lui stesso con grande divertimento durante gli anni del mio servizio civile da obiettore di coscienza, quando si sedeva con me durante le mie ore di turno, stringendo nervosamente le mani intorno al ginocchio e fumando una sigaretta dietro l’altra, oppure facendole scattare all’improvviso con un ghigno e puntandomi il dito sottile sotto il naso quando voleva prendermi di sorpresa se mi vinceva la sonnolenza. È stato allora che l’ho conosciuto, nei pomeriggi afosi dell’estate 2003, quando Gino mi insegnò cosa significasse accompagnare un cieco, prenderne il passo, ovvero adeguarsi a una velocità comune di modo che l’altro camminasse 𝘤𝘰𝘯 te, seguendo il tuo passo, fidandosi di ciò che vedevi tu anche per lui; prendere quel certo passo che dice “fidati di me”, sembrava una cosa facile ma era una bella responsabilità, prendere quel passo e procedere rilassati, senza che ti si irrigidisca il braccio per quella pressione gentile o irritata a seconda dell’umore, stando attenti alle scale, ai marciapiedi, alle buche, ai gradini, al traffico, alle merde dei cani, senza cambiare marcia, senza accelerare o strattonarlo in avanti come si fa a volte coi cani o coi bambini, con la delicatezza di chi vede l’altro che si tiene a te. Era facile dimenticarsi di lui, perché era minuto, sottilissimo, leggero, aveva le mani delicate da pianista e il passo baldanzoso di chi si è sempre fatto strada da solo al buio, preceduto da tutta una serie di magnifici e buffi esclamativi, “Yooooh!”. Aveva una sua malinconia che si esprimeva in lunghi silenzi, in lunghe giornate di apatia passate a letto, in plateali scatti d’ira che assomigliavano ai capricci di un bambino quando lasciava la stanza sbattendo la porta. Era leggero anche oggi nella cassa, non lo vedevo da anni, troppo minuto nel suo vestito elegante che pure gli donava, le mani posate con delicatezza l'una sull'altra, i capelli tirati morbidamente indietro, gli occhiali scuri sul naso: gli occhiali che lo avevano accompagnato per tutta la vita come un accessorio necessario e che adesso, che più non gli servivano, gli davano un’aria molto cool nella morte, da vera star, come quand’era ragazzo. Stavo seduto davanti a lui e dall’altra parte della cassa stava seduta una coppia, entrambi commossi, lui ha tirato fuori dalle tasche due fazzoletti, uno per sé e uno per la sua compagna, poi lui ha chiesto “sei pronta?” e quando lei ha detto sì, hanno cominciato a piangere insieme.
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