Un anno fa, nella notte fra 11 e 12 settembre, moriva mio padre. Io mi ricordo tutto di quella notte, ogni attimo, perché c’ero, ero lì al suo capezzale. E mi rattristo sinceramente per mio fratello che non poteva esserci e soffre di non esserci stato. Come mi diceva l’altra sera una mia amica psicoterapeuta assistere alla morte di una persona cara, per quanto sia terribile come esperienza, aiuta moltissimo nell’elaborazione del lutto, rende più naturale il distacco. Per questo, ogni volta che penso a mio padre, a me dispiace soprattutto per chi non c’era alla morte di un suo caro, per chi per un motivo o per l’altro non poteva esserci, e non sa cosa sia successo, che cosa hanno pensato o detto negli ultimi istanti, e se ti cercavano con gli occhi. Penso che questo vuoto sia terribile da portarsi dietro, ancora più che vederli morire, e anche per questo penso, o meglio ancora sento, perché è più un sentire che una ragione la mia, che se pure sia stato necessario, se pure non si poteva fare altrimenti, quello che abbiamo fatto durante la pandemia, quello strappo parossistico e disumano fra chi moriva e chi restava, i loro corpi occultati, i funerali a porte chiuse di stampo militare, è una colpa talmente pesante, qualcosa di talmente spietato che anche se veniva fatta con delle motivazioni precise non ce la dovremmo semplicemente perdonare e poi passare ad altro. Andrebbe elaborata meglio.
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