Nella
sua autobiografia Emilio Isgrò racconta di aver incontrato Alighiero
Boetti, che definisce un cane sciolto afflitto dalla solitudine, nel bel
mezzo del gelido inverno del 1991. Invitato a una sua mostra a Milano,
scrive di aver passato con lui due o tre ore seduto su una panchetta
nella sala espositiva riscaldata, ma vuota, lamentandosi dei critici e
dei mercanti distruttori dell’arte e dell’uomo. “Una lamentazione
talmente appagante che decidemmo di rivederci il giorno dopo
alla stessa ora per continuare a lamentarci insieme”. È uno di quegli
aneddoti di Isgrò per cui ho sorriso di più, perché l’ho trovato così
comune al mondo degli artisti che frequento da una vita che mi sono
riconosciuto in quei due che fanno amicizia sulla panchetta della sala
deserta, nella comune lamentazione di essere soli e incompresi e anche,
come tutti i soli e incompresi che si rispettino, profondamente egoisti e
inaffidabili. Il giorno dopo, infatti, già preso da altre cose Boetti
darà bidone a Isgrò che continuerà a lamentarsi da solo con se stesso
come aveva sempre fatto. L’amicizia, però, rimane intatta.
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