Erano tutti in casa i miei amici, senza vergogna di invadermi le stanze, occupare le mie sedie, scavare fra i vestiti nel mio armadio, razziare le dispense, bere alla mia salute dalle mie bottiglie. Giocavano a carte su due o tre tavoli diversi ricoperti di bianco, e c’erano con loro i miei nonni con l’aria stanca di chi non capisce ma sta fermo e compunto sulla sedia. Nessuno parlava apertamente, neppure quelli di cui ormai non ricordavo più il viso e comunicavano fra loro attraverso gli sguardi e pochi gesti della mano. Né la ragazza che si aggirava fra le sedie e i tavoli con la camicia aperta e il seno bianco in mostra. Erano qui tutti, mi ero convinto, per il mio funerale; se non fosse che io stesso mi aggiravo per la casa insieme a loro, cercandomi. Mi ero nascosto, ma io solo lo intuivo, dietro l’ultima porta della casa, quella in fondo al buio dell’ultima stanza, dal cui spiraglio vedevo fuoriuscire una lieve luce, né fredda né calda; ma guardando in basso, giù per la scala a chiocciola, ne vedevo provenire un’altra assai più lontana e mi metteva il dubbio sulla mia reale ubicazione nella casa. Ero forse lì in basso da solo? Io non sapevo più dire se ero vivo o morto e se fossi presente alla mia casa. Ero anch’io un ospite come tutti gli altri, che pure, anche se con loro, non sembravano vedermi o rifiutavano di farlo.
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