Nel sogno mi innamoro di una donna. È una scrittrice accompagnata da due corvi che parlano per lei, col viso gentile di una donna e la capacità ogni volta che mi avvicino di trasformarsi in riccio e richiudersi in se stessa sollevando gli aculei. Riesco appena ad afferrarle la caviglia, ma non c’è altro contatto fra noi che vada oltre quei rari momenti in cui ci fissiamo intensamente e io le faccio il solletico sulla pianta delicata del piede. Lei allora ride di gioia e si richiude in se stessa e nelle spine. Eppure, nonostante il nostro solo toccarci attraverso la mia mano sul suo piede, in maniera abbastanza naturale io resto incinta di lei e lei resta incinta di me. Il medico chiamato dai corvi viene a visitarci e, dopo averci fatto stendere per terra sul pavimento di una grande biblioteca, ci preannuncia cinque giorni di doglie a testa, in cui non faremo altro che lamentarci e incolparci l’un l’altro delle nostre sofferenze, alla fine dei quali vedremo se oltre a essere genitori saremo ancora una vera coppia. Dovendo soffrire così tanto propongo, per distrarci, di non restare chiusi in casa ma organizzare un incontro con la mia famiglia per avvisarli dell’evento. Ma ci viene proposto come luogo dell’appuntamento una piccola terrazza nascosta fra i tetti del paese, in un luogo difficilissimo da raggiungere perché senza scale, né porte o finestre, dove si può arrivare soltanto arrampicandosi come i ladri, dall’esterno, e senza contare lo sforzo di doversi aggrappare ai muri con le doglie! Ne vale la pena, mi dico, solo per vedere, al loro arrivo, le facce imbarazzate dei parenti quando comunichiamo la notizia. Il più stranito di tutti, all’idea che io sia incinta, è mio zio, che non avendo capito nulla di com’è andata la faccenda mi chiede se al dunque non c’è stata una ostruzione dei tubi.
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