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domenica 24 luglio 2022

rientro

Poco fa, mentre rientravo, mi sono distratto per guardare un gatto che attraversava la strada e sono quasi stato investito. È stata roba di un attimo e per fortuna mi sono scansato in tempo, ma la cosa straordinaria è stata focalizzare, dopo, cosa ho pensato in quell’attimo in cui ho creduto di finire sotto. La prima cosa riguarda la ragazza cinese del primo piano che per combattere il caldo si mette sul balcone coi piedi in una tinozza d’acqua e io mi sono chiesto se l’acqua era fresca. La seconda cosa chissà che mi dirà Antonello adesso, che poco fa mi aveva detto vieni che ti do un passaggio e io no tranquillo vado a piedi e poi vede che mi mettono sotto. Queste due cose ho pensato subito, e dopo che a Damasco c’è il gelo e chissà dove è sparito il gatto.

sabato 22 giugno 2019

oro


 7 Marzo 1999

Piove da tre anni. Pioverà ancora. L’uomo della pioggia non potrà fermarsi. Non l’aveva previsto. Ne ho comprato la pietà con del bourbon ed un fucile. Ho puntato la verità ai suoi occhi e ho detto: Guarda! Ed ha negato. Perché è il più grande di tutti. L’ultimo. Ah! come l’avrei amato! Il cantastorie assoluto! Avrei scelto per me il vero perdente. Anni fa. Ma il mio dono è l’errore. L’eredità la perdita.
Piove da sei anni. Pioverà ancora. Mi sono rifugiato nel mio castello antico. Nel mio appartamento di Hopper. Come per spiarmi. Nel mio armadio ho nascosto l’intero mio deserto. Ogni singolo granello di polvere disperde fugaci apparizioni. Fughe! Mi vesto di stelle. Il manto regale cucito di notte sulla pelle. Oh ricordo! Rievoco l’attimo in cui scegliesti il punto perfetto per colpire e stupire col sangue… Ma non v’è più niente da cercare. Niente altro da dire. Come per l’arte. Solo i miei sentimenti. E tu mi hai dato l’occasione. La visione, ah! la visione! Converso con un’idea – mi acceca! Tu sei come me? Non vuole lasciarmi. Mi credi tuo? Si infuria ad ogni mio suono. Ma io emetto palpiti e sospiri – come tutto corrisponde! Loro; la dose, solitudine di un’auto; la saggezza di Marco Aurelio; la mia infanzia. Ma è quantomai banale! Quantomeno volgare! Allora l’infamia è il tuo telefono da un’ora, che geme nello stacco fra lo squillo e la risposta, la prova di fratellanza. Ci sei o ci sono dispongo del tuo tocco! Conosco anch’io la voglia! Solo il mio bisogno irresistibile! 
Io e lui in confessione su una strada americana – O pudica America! – interminabile e nuda, come le sue parole. Dove arriva? chiede innocente. Ne cerchiamo per ore la fine, ma è inutile. Voltandoci indietro confrontiamo le distanze, e ogni volta la strada percorsa è lunga quanto la strada da percorrere ancora. Ah torniamo indietro! dice con rancore. Torniamo indietro e il quadro è esploso – nessuno ce l’ha fatta. Ma lo spazio è una mandria di fumo forzata e piegata dal vento con l’intimidazione e la violenza. Fomentata dal fuoco. Ci contendiamo, io e lui, l’ossigeno: avidi, ingordi, ne possediamo, ne ingoiamo quanto più possiamo senza sentirne quasi il duro sapore, fino a slogare la mascella, fino a consumare l’ano, e chi vince e chi perde comunque muore! – Oh troppi moti dell’anima, troppi intensi patimenti! E nello spazio è come se non fosse mai cominciata. Ma tardi. 
Ho visto cose accalcarsi per la mensa dell’acido, come poveri dementi spartirsi pezzi di sole dilaniato delle dimensioni di un’unghia che scordi pure il freddo della notte, litigare e ferirsi per quello, distribuito agli angoli di strada da uomini cercati così a lungo, ed io indossavo solo una lanterna. Ho visto, nella sua luce, nascere grattacieli cannone e statue di piombo e pezzi di carne fresca, grondante sangue, appesi in mostra per il domani e colori nel calderone e tutti i linguaggi da unificare sotto la luna oscura di Babele, perché priva dell’altra metà del cielo. Ho capito cose – malamente malmenato, picchiato sulla testa dai soldati della Democrazia e collezionavo solo ritagli di giornale, opere d’arte stampate male, in bianco e nero sporco, immagini dispersive in puntini allucinati d’oro pallido, ricordi trattenuti in cartelle tutte uguali, imbevute di veleno storico, tutte dalla stessa parte, della stessa pasta morale. Prigioni! 
Ma dopo l’ultimo omicidio, dopo il furto, lo stupro, dimenticai. E tutto ciò che volevo era una pistola. Una pistola da tenere sul cuore. Una pistola contro una spada: il duello cittadino, l’umano dilemma, la tua domanda segreta: Potevi giurarmi fedeltà eterna? Potrò mai perdonarti, io, la tua diversità? Il nostro fallimento, la mia incapacità comune verso l’ovvio. Nessuno capirà fuorché le pietre! Pazienza! L’ovvio! Ma ora conosco la vendetta: l’eliminazione del ricordo. Terrò per me dunque il mio sogno del Regno delle Capre, pisciatoi stellari in cui si riflettono lucide volontà, città celesti gremite di mani, angeli stregati in rifugi arabici, grotte chiare come pozzi d’eco dove l’amore è lontano, l’orribile letteratura antica è lontana, i canti mi angosciano… 
Per te, 
che hai aurore boreali e festoni giapponesi danzanti negli occhi, vigili come lucertole, che battono veloci all’ago nella mia schiena come fosse un tamburo selvaggio, perché riunisca per il festino della notte, la notte nascosta dietro il tuo orecchio sussurra: Tradimento! Tradimento! Il re è morto! La notte nel pozzo, o di guardia, per sempre alla tua porta, estraneo alla tua luce… immaginando. La mia testa, Erodiade, persa fra le tue parole non dette. Così ti perdo… 
Tutti i miei pensieri in continua evoluzione, entro nel mio secondo letargo… Andato male anche questo tentativo. Un’altra fuga nei miei sogni poi – al sicuro dietro i miei quattro muri chiusi – ah tutti quei volti pieni di vita! – sopraffatto dai volti! Questa: la mia fortezza della solitudine! 
…A volte penso: Vissuto troppo poco a lungo per poter decidere sulla giustizia o sull’ingiustizia dei miei anni. Ma grazie sorella Fortuna! Grazie per l’assenza! Io, posso convivere col Crimine. 

martedì 1 novembre 2016

il giardiniere alla foresta


Un giardiniere che, per brevissimo tempo, è stato celebre per un suo libro di viaggio in moto da cross attraverso il Messico non si incontra tutti i giorni. Eppure una mattina mi chiama al telefono e mi chiede un appuntamento per propormi, durante la mezz’ora che è riuscito a ritagliarsi fra una potatura e l’altra, la pubblicazione del suo nuovo libro prima della sua probabile partenza. 
Non l’ho mai visto prima, ma vive a pochi chilometri da casa, in un centro spirituale in perfetto stile indiano, ma organizzato come un B&B. Dorme lì gratis, in cambio di lavori di fatica fra cui la potatura di altissime palme sulle quali è il solo capace di arrampicarsi senza vertigini. Al suo interno fa vita appartata, sua unica compagnia è un gatto transgender che a un certo punto ha cambiato genere in maniera spontanea, trasformandosi da maschio a femmina. Per il resto lavora duro e senza respiro. Si sveglia all’alba, mangia da solo quanto più può per darsi energia – e svuotando ogni volta il frigo, motivo per cui non lo amano – poi tira dritto fino al tramonto con la consapevolezza che presto, appena fa due soldi, andrà via. 
Da come si descrive lo diresti un uomo taciturno. Invece, gioviale come pochi, mi si siede davanti e mi parla dei suoi racconti, oppure comincia a leggermi stralci dal manoscritto, scoppiando a ridere di tanto in tanto travolto dalla sua stessa ironia. 
Ricordo una storia in particolare in cui, in un suo viaggio onirico arriva in una valle. Ci è arrivato sognando perché gli hanno detto che qui, tutte le mattine, succede un fenomeno assai particolare a cui vuole assistere. Nella valle vivono, ancorate al suolo, delle enormi forme dormienti, lunghe fino a venti metri, che palpitano nel buio della notte, e che sollevandosi all’alba, risvegliate dai primi tiepidi raggi, trasformano la valle in una sorta foresta pluviale. Ecco che lontano, dietro l’orizzonte, comincia a intravedersi la luce, la terra si muove pigramente, poi trema per lo stiracchiarsi dei corpi, il loro gonfiarsi e irrigidirsi, tirarsi su pian piano a scatti, impennarsi e incurvati lievemente verso il cielo, rosei, lucidi e tirati in cima, appena scossi dal fresco del primo mattino che li pizzica. Una vera foresta di cazzi equatoriali. 
Sarebbe una visione maestosa e degna di Moebius, se a questo punto non arrivasse a mungerli una squadra attrezzata di nani che, con grande abilità, si arrampicano lungo il loro fusto nodoso, arrivano in punta e cominciano a massaggiarla con decisione fino a farli eruttare in uno spruzzo che ricorda l’esplosione di un gaiser o di un pozzo petrolifero, impiastricciando la valle dei loro succhi vitali. È una tale sconcezza di sogno che alla fine il suo stesso autore decide di abbattere questa foresta oscena ricorrendo alle forze speciali dell’aeronautica: una pattuglia composta da aerei a forma di vagina, che grazie ad ali basculari sono capaci di atterrare in verticale sopra i cazzi e… 
Gli dico che le sue storie mi piacciono ma non ho tempo di seguirlo, così lo passo a Luca perché ci lavorino assieme loro due. Ci lavorano così tanto – con lui che riscrive intere pagine del libro per ridarcele identiche a com’erano in partenza – che, ironia a parte, alla fine il libro non si fa più. Ci salutiamo, molto tempo prima della data annunciata per la sua partenza, quando ormai stufo di tutto e tutti, avendo fatto due soldi, mi telefona per comunicarmi che ha deciso di tornarsene un po’ dalla sua mamma, in Veneto.

domenica 17 aprile 2016

gengive

Chissà che vedeva mio nonno nella lunga estate, quando da solo in giardino aguzzava lo sguardo verso l’albero o la strada vuota alla ricerca di vecchi compagni e di ricordi perduti per la demenza. Forse è così la vita a un giorno, tutto torna di soppiatto e vanamente cerchi di interpretare i segni della fine attraverso l’afa e il rimpianto. Mio nonno, seduto sotto il cedro, strizzava gli occhi perplesso e stringeva le mani dai grossi polsi sformati in preghiera. Fissava in basso, verso la terra, rimasticando e ripulendo per ore il seme duro del tempo fra le gengive indurite.

mercoledì 15 luglio 2015

milano liberata

Stanotte ho sognato che Isis invadeva l'Europa entrando dalla Grecia. I greci che non si convertivano a Isis attraversavano il mare e venivano in Puglia. I meridionali allora risalivano l'Italia formando un esercito coi greci e con gli africani arrivati sui gommoni e, guidati da Papa Francesco come in una sorta di Crociata al contrario, riconquistavano Milano. Isis si mangiava intanto i Balcani e attaccava la Germania e il Nordeuropa. In tutto questo gli Stati Uniti si dichiaravano neutrali, mentre continuavano a vendere armi a Isis, e la Russia di Putin prendeva accordi con tutti senza aiutare nessuno. Cominciava così la terza guerra mondiale, che vedeva schierate tre forze: Isis, Germania e Papa Francesco col suo esercito di meridionali. I più furbi emigravano in Groenlandia. Altri ancora in Palestina.

lunedì 15 aprile 2013

questa casa popolata di cadaveri...

Questa casa popolata di cadaveri
dorme un sonno lungo e spezzato
quando si risvegliano
di rado i loro problemi migliorano
gli occhi annebbiati di sonno
non mettono a fuoco i problemi
non cambiano mai visione
tutte le certezze sognate
si affievoliscono piano come fa
la notte nel mattino
non reclamano vendetta né salute.

lunedì 24 dicembre 2012

cometa

Entroterra oltremare sarai
sempre oltre il limite
tu l’orizzonte
tu la linea immaginaria
che nasconde
tutto il resto del cielo.

Tu il giallo che illumini
il mio canto dallo scoglio.

sabato 14 luglio 2012

licini-morandi


Come ogni studente d’arte, sono cresciuto guardando e ammirando opere di pittura, che per secoli è stata la massima espressione dell’idea di creatività, tanto che ancora oggi se dici “arte”, fra le varie sue diramazioni, pensi sempre, per prima cosa, alla pittura.
Nella mia vita ho amato e appreso da innumerevoli pittori, senza distinzioni di tempo o luogo, e stare qui a enumerarli tutti sarebbe inutile, lunghissimo (e noiosissimo), e poi sarei di sicuro ingiusto, perché ne salterei sempre qualcuno. Se però dovessi indicarne qualcuno in particolare, italiano, che mi abbia particolarmente affascinato o influenzato, per la sua poesia o per una particolare affinità col mio mondo, sulle prime mi vengono in mente due nomi.
Il primo è quello di Giorgio Morandi, pittore di nature morte, di attimi sospesi e di silenzi: e se c’è pittore metafisico in Italia, più ancora di De Chirico, quello è proprio Morandi. L’altro, ancora più scostante del primo, tanto da risultare a molti semisconosciuto, è Osvaldo Licini.
Licini e Morandi erano amici, fin dai tempi dell’accademia a Bologna, e poi per tutta la loro vita. Per certi versi si assomigliavano: partivano entrambi dalla poesia, e amavano gli stessi poeti, Leopardi e Campana; erano due solitari, estranei ai salotti bene dell’arte, preferivano restarsene per conto loro, chiudersi in lunghi silenzi pensierosi, in cui l’unica cosa che contava era la loro arte, la loro necessità creativa. Eppure, allo stesso tempo, erano del tutto opposti per scelte, per poetica e per temperamento, tanto che spesso si ritrovavano a discutere animatamente sul senso della loro arte, che poi, per loro, era senso della vita. La prima grande rottura avvenne nel 1939, quando Licini, in piena fase astrattista, definì l’amico “campione della mediocrazia artistica italiana”, giudizio a cui il compagno rispose con un ostinato mutismo, protrattosi fin dopo la guerra.
L’anno passato, a Fermo, una mostra dal titolo quanto mai azzeccato: “Divergenze// Parallele”, a cura di Marilena Pasquali e Daniela Simoni, ha celebrato quell’amicizia.


Volendo sintetizzare al massimo e con una immagine, la differenza maggiore fra i due stava in questo: data loro una stanza chiusa, con un cavalletto su cui lavorare, tanto l’uno (Morandi) guardava all’interno della stanza, ai suoi angoli in ombra, negli spazi fra gli oggetti posati sul tavolo, dove in genere si annidano le trame sottili e brillanti delle ragnatele, quanto l’altro (Licini) guardava all’esterno, allo spazio sconfinato fuori dalla sua finestra, oppure immaginati oltre il muro, verso il cielo luminoso dietro gli alberi in fondo al campo, e ancora più su, verso lo spazio infinito dove i sognatori costruiscono, senz’alcuna fondamenta, i propri castelli in aria.
Diverso era anche il loro codice espressivo. L’uno si aggrappava quasi con ostinazione alle sue tre o quattro scatole, o vasi di fiori, che reinventava di continuo in colori tenui e caldi, oppure brillanti, comunque mai dissonanti, ma sempre accostati con occhio “musicale”, in cui l’uno serve a far risuonare l’altro in un minimalismo tutto sonoro, la pennellata più o meno pastosa, e quasi acquerellata verso la fine, quando decise di aprirsi finalmente in paesaggi al limite dell’informale.
L’altro reinventando di continuo il proprio mondo, incarnandolo di continuo in oggetti, luoghi e personaggi fantastici (le città celesti, gli olandesi volanti, le Amalassunte, gli angeli), organizzati in serie poetiche, evocatrici, il cui comune denominatore era il colore pastoso e vivace, spesso luminosissimo, la pennellata irrequieta, piena di urgenza espressiva, la linea rapida ma elegante. Si diceva un astrattista Licini, ma era qualcosa di più e di meno di un astrattista, meno rigido nell’esposizione rigorosa della propria idea e assai più lirico.


Entrambi rigorosissimi ma in maniera diversa. L’uno, Morandi, più stabile, inflessibile, a suo modo sperimentatore indefesso, produceva senza pace, nel silenzio del suo studio, a un ritmo lento ma costante. Non si muoveva quasi mai di casa. “Ebbene, non verrai a trovarci questo anno? Quando ti pare, sarai sempre benvenuto”, scriveva Licini all’amico dal suo isolamento a Monte Vidon Corrado, nelle Marche, di cui nel dopoguerra divenne sindaco, né perdeva occasione per incontrare Morandi ogni volta che si trovava a passare per Bologna. Non c’è testimonianza, però, di alcuna visita di Morandi all’amico.
La pittura in sé era l’unico scopo della sua vita. L’opera lasciataci, infatti, è enorme e mai, pur nel ripetersi infinito dei soggetti, uguale a se stessa: la testimonianza di una fede senza cedimenti, quasi rinascimentale, nei mezzi dell’arte.
L’altro, Licini, più irrequieto, all’apparenza contradditorio, oscillava in continuazione fra la ricerca modernista, di un ordine e di una disciplina che sentiva necessari a lui come ai tempi, e la ricerca quasi selvaggia, di stampo folcloristico, in cui si lasciava andare, senza barriere, alle visioni del suo mondo interiore, fra impennate celesti e richiami infernali.
Tra un flusso di furia creativa e l’altro, si concedeva lunghe pause, in cui metteva da parte il pennello per riflettere, studiare, viaggiare. Dopo un lungo silenzio, spesso Licini buttava via tutto, distruggeva e ricominciava. Talvolta, incurante, rifaceva sulle tele già dipinte, perché per lui l’arte aveva valore in quanto mezzo, e non fine, verso il chiarimento dei dubbi che minavano l’uomo, nell’incessante ricerca di sé.