Come ogni studente d’arte, sono cresciuto guardando e ammirando opere di pittura, che per secoli è stata la massima espressione dell’idea di creatività, tanto che ancora oggi se dici “arte”, fra le varie sue diramazioni, pensi sempre, per prima cosa, alla pittura.
Nella mia vita ho amato e appreso da innumerevoli pittori, senza distinzioni di tempo o luogo, e stare qui a enumerarli tutti sarebbe inutile, lunghissimo (e noiosissimo), e poi sarei di sicuro ingiusto, perché ne salterei sempre qualcuno. Se però dovessi indicarne qualcuno in particolare, italiano, che mi abbia particolarmente affascinato o influenzato, per la sua poesia o per una particolare affinità col mio mondo, sulle prime mi vengono in mente due nomi.
Il primo è quello di Giorgio Morandi, pittore di nature morte, di attimi sospesi e di silenzi: e se c’è pittore metafisico in Italia, più ancora di De Chirico, quello è proprio Morandi. L’altro, ancora più scostante del primo, tanto da risultare a molti semisconosciuto, è Osvaldo Licini.
Licini e Morandi erano amici, fin dai tempi dell’accademia a Bologna, e poi per tutta la loro vita. Per certi versi si assomigliavano: partivano entrambi dalla poesia, e amavano gli stessi poeti, Leopardi e Campana; erano due solitari, estranei ai salotti bene dell’arte, preferivano restarsene per conto loro, chiudersi in lunghi silenzi pensierosi, in cui l’unica cosa che contava era la loro arte, la loro necessità creativa. Eppure, allo stesso tempo, erano del tutto opposti per scelte, per poetica e per temperamento, tanto che spesso si ritrovavano a discutere animatamente sul senso della loro arte, che poi, per loro, era senso della vita. La prima grande rottura avvenne nel 1939, quando Licini, in piena fase astrattista, definì l’amico “campione della mediocrazia artistica italiana”, giudizio a cui il compagno rispose con un ostinato mutismo, protrattosi fin dopo la guerra.
L’anno passato, a Fermo, una mostra dal titolo quanto mai azzeccato: “Divergenze// Parallele”, a cura di Marilena Pasquali e Daniela Simoni, ha celebrato quell’amicizia.
Nella mia vita ho amato e appreso da innumerevoli pittori, senza distinzioni di tempo o luogo, e stare qui a enumerarli tutti sarebbe inutile, lunghissimo (e noiosissimo), e poi sarei di sicuro ingiusto, perché ne salterei sempre qualcuno. Se però dovessi indicarne qualcuno in particolare, italiano, che mi abbia particolarmente affascinato o influenzato, per la sua poesia o per una particolare affinità col mio mondo, sulle prime mi vengono in mente due nomi.
Il primo è quello di Giorgio Morandi, pittore di nature morte, di attimi sospesi e di silenzi: e se c’è pittore metafisico in Italia, più ancora di De Chirico, quello è proprio Morandi. L’altro, ancora più scostante del primo, tanto da risultare a molti semisconosciuto, è Osvaldo Licini.
Licini e Morandi erano amici, fin dai tempi dell’accademia a Bologna, e poi per tutta la loro vita. Per certi versi si assomigliavano: partivano entrambi dalla poesia, e amavano gli stessi poeti, Leopardi e Campana; erano due solitari, estranei ai salotti bene dell’arte, preferivano restarsene per conto loro, chiudersi in lunghi silenzi pensierosi, in cui l’unica cosa che contava era la loro arte, la loro necessità creativa. Eppure, allo stesso tempo, erano del tutto opposti per scelte, per poetica e per temperamento, tanto che spesso si ritrovavano a discutere animatamente sul senso della loro arte, che poi, per loro, era senso della vita. La prima grande rottura avvenne nel 1939, quando Licini, in piena fase astrattista, definì l’amico “campione della mediocrazia artistica italiana”, giudizio a cui il compagno rispose con un ostinato mutismo, protrattosi fin dopo la guerra.
L’anno passato, a Fermo, una mostra dal titolo quanto mai azzeccato: “Divergenze// Parallele”, a cura di Marilena Pasquali e Daniela Simoni, ha celebrato quell’amicizia.
Volendo sintetizzare al massimo e con una immagine, la differenza maggiore fra i due stava in questo: data loro una stanza chiusa, con un cavalletto su cui lavorare, tanto l’uno (Morandi) guardava all’interno della stanza, ai suoi angoli in ombra, negli spazi fra gli oggetti posati sul tavolo, dove in genere si annidano le trame sottili e brillanti delle ragnatele, quanto l’altro (Licini) guardava all’esterno, allo spazio sconfinato fuori dalla sua finestra, oppure immaginati oltre il muro, verso il cielo luminoso dietro gli alberi in fondo al campo, e ancora più su, verso lo spazio infinito dove i sognatori costruiscono, senz’alcuna fondamenta, i propri castelli in aria.
Diverso era anche il loro codice espressivo. L’uno si aggrappava quasi con ostinazione alle sue tre o quattro scatole, o vasi di fiori, che reinventava di continuo in colori tenui e caldi, oppure brillanti, comunque mai dissonanti, ma sempre accostati con occhio “musicale”, in cui l’uno serve a far risuonare l’altro in un minimalismo tutto sonoro, la pennellata più o meno pastosa, e quasi acquerellata verso la fine, quando decise di aprirsi finalmente in paesaggi al limite dell’informale.
L’altro reinventando di continuo il proprio mondo, incarnandolo di continuo in oggetti, luoghi e personaggi fantastici (le città celesti, gli olandesi volanti, le Amalassunte, gli angeli), organizzati in serie poetiche, evocatrici, il cui comune denominatore era il colore pastoso e vivace, spesso luminosissimo, la pennellata irrequieta, piena di urgenza espressiva, la linea rapida ma elegante. Si diceva un astrattista Licini, ma era qualcosa di più e di meno di un astrattista, meno rigido nell’esposizione rigorosa della propria idea e assai più lirico.
Diverso era anche il loro codice espressivo. L’uno si aggrappava quasi con ostinazione alle sue tre o quattro scatole, o vasi di fiori, che reinventava di continuo in colori tenui e caldi, oppure brillanti, comunque mai dissonanti, ma sempre accostati con occhio “musicale”, in cui l’uno serve a far risuonare l’altro in un minimalismo tutto sonoro, la pennellata più o meno pastosa, e quasi acquerellata verso la fine, quando decise di aprirsi finalmente in paesaggi al limite dell’informale.
L’altro reinventando di continuo il proprio mondo, incarnandolo di continuo in oggetti, luoghi e personaggi fantastici (le città celesti, gli olandesi volanti, le Amalassunte, gli angeli), organizzati in serie poetiche, evocatrici, il cui comune denominatore era il colore pastoso e vivace, spesso luminosissimo, la pennellata irrequieta, piena di urgenza espressiva, la linea rapida ma elegante. Si diceva un astrattista Licini, ma era qualcosa di più e di meno di un astrattista, meno rigido nell’esposizione rigorosa della propria idea e assai più lirico.
Entrambi rigorosissimi ma in maniera diversa. L’uno, Morandi, più stabile, inflessibile, a suo modo sperimentatore indefesso, produceva senza pace, nel silenzio del suo studio, a un ritmo lento ma costante. Non si muoveva quasi mai di casa. “Ebbene, non verrai a trovarci questo anno? Quando ti pare, sarai sempre benvenuto”, scriveva Licini all’amico dal suo isolamento a Monte Vidon Corrado, nelle Marche, di cui nel dopoguerra divenne sindaco, né perdeva occasione per incontrare Morandi ogni volta che si trovava a passare per Bologna. Non c’è testimonianza, però, di alcuna visita di Morandi all’amico.
La pittura in sé era l’unico scopo della sua vita. L’opera lasciataci, infatti, è enorme e mai, pur nel ripetersi infinito dei soggetti, uguale a se stessa: la testimonianza di una fede senza cedimenti, quasi rinascimentale, nei mezzi dell’arte.
L’altro, Licini, più irrequieto, all’apparenza contradditorio, oscillava in continuazione fra la ricerca modernista, di un ordine e di una disciplina che sentiva necessari a lui come ai tempi, e la ricerca quasi selvaggia, di stampo folcloristico, in cui si lasciava andare, senza barriere, alle visioni del suo mondo interiore, fra impennate celesti e richiami infernali.
Tra un flusso di furia creativa e l’altro, si concedeva lunghe pause, in cui metteva da parte il pennello per riflettere, studiare, viaggiare. Dopo un lungo silenzio, spesso Licini buttava via tutto, distruggeva e ricominciava. Talvolta, incurante, rifaceva sulle tele già dipinte, perché per lui l’arte aveva valore in quanto mezzo, e non fine, verso il chiarimento dei dubbi che minavano l’uomo, nell’incessante ricerca di sé.
La pittura in sé era l’unico scopo della sua vita. L’opera lasciataci, infatti, è enorme e mai, pur nel ripetersi infinito dei soggetti, uguale a se stessa: la testimonianza di una fede senza cedimenti, quasi rinascimentale, nei mezzi dell’arte.
L’altro, Licini, più irrequieto, all’apparenza contradditorio, oscillava in continuazione fra la ricerca modernista, di un ordine e di una disciplina che sentiva necessari a lui come ai tempi, e la ricerca quasi selvaggia, di stampo folcloristico, in cui si lasciava andare, senza barriere, alle visioni del suo mondo interiore, fra impennate celesti e richiami infernali.
Tra un flusso di furia creativa e l’altro, si concedeva lunghe pause, in cui metteva da parte il pennello per riflettere, studiare, viaggiare. Dopo un lungo silenzio, spesso Licini buttava via tutto, distruggeva e ricominciava. Talvolta, incurante, rifaceva sulle tele già dipinte, perché per lui l’arte aveva valore in quanto mezzo, e non fine, verso il chiarimento dei dubbi che minavano l’uomo, nell’incessante ricerca di sé.
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