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martedì 14 maggio 2024

uno

Ho letto che quest'anno al Salone ci sono stati 222.000 visitatori e ho pensato che, esclusi i torinesi, di questi almeno 111.000 erano scrittori, amici o parenti di scrittori che presentavano il libro (come una coppia siciliana incontrata in treno, salita apposta per vedere il figlio che presentava il suo libro al Salone, manco si stesse laureando), o aspiranti scrittori che sognano un giorno di passare il varco col pass degli addetti ai lavori che non ti dà diritto a niente a parte saltare la fila all'ingresso. 55.500 di loro li conoscevo di persona e ci salutavamo fra di noi ammiccando, come i membri di una banda di carbonari. Uno di loro ero io. (Ironia della sorte, o segno dei tempi: alla fine l'autore più venduto del Salone non è stato nemmeno uno scrittore ma un fumettista, Zerocalcare: come se io andassi al Lucca Comics e sbancassi con le mie poesie).


domenica 12 maggio 2024

salone e abbraccio

È inutile, io più divento vecchio e meno reggo il Salone del Libro e situazioni simili. So che a qualcuno piace oltremodo perché è effettivamente divertente (per una giornata in gita), ma c'è pure chi lo definisce un tempio della cultura e lì ci andrei piano. Il simbolo maggiore di cosa è diventato o sta diventando il Salone per me lo dà la mappa ai padiglioni e agli stand, da cui mancano completamente i nomi degli editori, sostituiti dalle pubblicità, tutte di alto profilo intendiamoci, ma che la rendono una tovaglia colorata e perfettamente inutile se non puoi abbinare un nome al quadratino giallo che rappresenta lo stand. I telefoni ieri erano in tilt per un sovraccarico della rete, per cui senza internet e senza mappa la gente si aggirava sperduta per i corridoi, e questo non è stato un gran servizio né per i lettori né per gli editori, soprattutto quelli più piccoli che hanno bisogno di essere cercati, perché non hanno gli stand sovradimensionati dei big. Molti di loro qui si sentono carne da macello, sacrificati all'evento spettacolare da cui non ci si può sottrarre, ma senza voce in capitolo, anche se pagano pure l'aria che respirano per essere qui (qualcuno recuperando le spese e qualcuno no) e senza nemmeno ricevere troppa attenzione o rispetto nel modo in cui vengono serviti per quello che pagano. Questo ovviamente dietro le quinte della gran festa che viene dipinta dalle storie su IG. Io ieri ho trovato un Salone molto caotico, bulimico e a tratti respingente — come quando sono andato a sentire Stefano Dal Bianco e mentre leggeva delle poesie la sua voce era coperta dal rumore, un continuo frastuono che sembrava venuto fuori da un film di Antonioni e che poi è stato sostituito dalle canzoni sarde che arrivavano dallo stand di fronte, altro che Paradiso — se non per il fatto di avervi ritrovato vecchi amici che non vedevo da anni, da quel punto di vista menomale che c'è il Salone. La parola più ascoltata però non è stata cultura né libro, ma fila: quella lunghissima per i bagni. Aldo Nove qualche giorno fa ha scritto che trova assurdo che ci sia gente che paghi il biglietto per entrare al Salone a comprare libri invece di andare in libreria. Ecco, ieri una mia amica libraia, dall'unica libreria indipendente che in otto anni che ci lavoro mi fa puntuali rendiconti trimestrali, mi ha detto che sta lottando per non chiudere. Il mio abbraccio più grande va a lei.

domenica 5 maggio 2024

festakkione

Oggi mi è venuto da pensare che in fondo andare al Salone del Libro di Torino è per certi versi il corrispettivo di quando, ai tempi in cui ero ragazzo, si andava al Concerto del Primo Maggio a Roma. C'era l'idea di fare qualcosa che aveva un fondamento etico (ma ben sponsorizzato) mentre di fatto si andava tutti al festakkione dell'anno. Più o meno la sensazione di stupore euforico è sempre quella, ma visto che siamo adulti con molte meno canne in giro.

mercoledì 19 aprile 2023

due buoni motivi per andare al salone

Sono talmente incasinato in questi giorni con la chiusura di un lavoro che mi sono appena ricordato che non ho fatto nessun post per dire in maniera elegante simpatica e ganza che quest'anno non sarò al Salone del Libro come quasi sempre faccio, anche perché a me del Salone del Libro in generale mi frega poco e nulla. Salvo che poi mi sono anche ricordato che io al Salone del Libro ci vado eccome ma non come editore, da privato, e soltanto per incontrarci una ragazza. Anche perché diciamocelo, gli unici due motivi buoni per andare al Salone del Libro sono: 1) farsi dei selfie fighi per dire che sei al Salone del Libro e 2) incontrare persone sessualmente interessanti. In tal senso gli scrittori/scrittrici del Salone del Libro sono molto più sessualmente interessanti degli editori, perché gli scrittori sono lì in vacanza, gli editori ci stanno per lavoro e dopo una certa ora puzzano anche di sudore.

domenica 22 maggio 2022

penna

Salone del libro. Un torinese in perfetto spirito napoletano facendo riferimento a un non specificato stand (punta il dito verso l’orizzonte) mi avvicina con un sorriso e la chiacchiera facile e mi intorta rivendendomi una penna omaggio per 5 euro. Parte dicendo che è un editore in difficoltà, passa a piangere le miserie del mercato, della famiglia e dei figli che deve sfamare, e finisce per chiedermi un’offerta (“quello che vuoi Antò, una pizza e una cocacola”) per sé e i suoi amici, un gruppo di scalcagnati come lui che gli sta dietro, in cambio della penna. Volevo dargli un euro ma era poco, tanto fa che gliene ho dati 5, ma ne voleva 8 (“non sono un bandito, Antò, non ti preoccupare” ripete due volte). La particolarità della penna, vanta, è che ha un calendario incorporato a tendina che puoi tirare fuori all’occorrenza (“così quando ti fai una scopata, Antò, te la puoi segnare qui per ricordarti l'anniversario”). Ma se il calendario è nella penna, come fai a scriverci con la stessa penna? Lui mi guarda furbescamente: è questa la genialata, Antò, che te ne devi prendere un’altra. Quando capisce che non andrò oltre le 5 euro chiude rapidamente e mi saluta. “Mi sei simpatico, Antò, scegli un colore!” Le penne erano rosse, bianche e verdi. Ho scelto verde. Ho pensato che magari mi porta fortuna.

giovedì 21 ottobre 2021

a ciascuno il suo

Non so quella degli altri (perché ognuno in fondo c'ha la sua) ma la mia Legge di Murphy è relativa al fatto che per una volta nella vita che NON vado al Salone del libro e quell'anno dicono c'è stata la migliore edizione da anni (cioè da tutti quegli anni in cui ci sono andato). Ergo, o è il mio esistenzialismo esasperato che a naso mi spinge a tirarmi fuori da ogni festa per starmene in disparte a guardare il muro, oppure più semplicemente il sistema è sempre quello ma dove passo io si guasta il vino.

mercoledì 6 ottobre 2021

compà

Io quest’anno al Salone non ci vado proprio. Non ci vado né in esposizione e nemmeno a farmi un giro. Mi dispiace pure, perché anche se alla fine non ti cambia un piffero nella vita – se non prenderti un sacco di soldi – mi ci diverto, ne riconosco l’importanza, e poi soprattutto ci si fanno incontri interessanti, ad esempio una volta ci ho incontrato Vivian Lamarque che mi ha scritto una lettera da consegnare ai miei gatti. Ai lettori ovviamente fregherà un ciufolo di tutto questo perché tanto chi ci va lo fa per vedere i mega scrittori stellari, mica per noi poveri scribacchini in versi. Però confesso che mi sento in colpa verso gli autori, perché comunque per un autore poter dire di esserci col proprio libro è importante, e io tutti gli anni a modo mio – fra il rocambolesco, l’arrangiato e il ridicolo – ci ho provato a farli girare. Una volta per dare una copia di un libro a Villalta mi sono sorbito un’intera presentazione in friulano dove per un’ora non ho capito una sola parola di quanto veniva detto e mi sono sentito come uno straniero in patria. Quest’anno però non ci riesco proprio ad andarci e in tutto questo, lo devo dire, la cosa che più mi ha commosso sono stati i messaggi di spinta e incoraggiamento di alcuni amici editori con cui mi incontro lì tutti gli anni. È una bella sensazione sapere che c’è qualcuno che fa il tuo stesso lavoro e invece di pensare “ecco uno stronzo di meno con cui dover combattere” ti scrive “Oh, cerca di esserci, compà, senza di te non sarebbe la stessa cosa”. Soprattutto il compà mi ha commosso.

giovedì 16 luglio 2020

il contenitore

Leggo molti post amareggiati o simil-amareggiati dalla notizia che anche PLPL, come tutti i grandi eventi librari del 2020, non si terrà quest’anno e credo di essere l’unico – ma lo so bene che non è così – a pensare che male realmente non farà a nessuno. Si dipende troppo da queste fiere o saloni del libro che, per quanto “etici” possano dirsi alla base, si risolvono sempre in una rappresentazione talvolta stucchevole, più spesso simile a un conclave laico, con gli editori che parlano della bellezza di ritrovare un rapporto con pubblico (come se non lo incontrassero altrove, il pubblico), ma che in realtà sono entusiasti soprattutto di potersi re-inquadrare in una comunità di fedeli – i centinaia di fedeli del Libro, cioè gli editori stessi, più gli autori (degli altri) più una parte dei lettori, visto che un’altra grossa parte ci va come si va ai Centri commerciali, per passare il fine settimana “diverso” – al punto che gli editori investono anche ingenti somme di denaro, ogni anno, per esserci. Esserci = apparire all’interno del rito, in questo caso vale più che guadagnare, tradendo addirittura la natura commerciale della propria attività. A chi si chiede cosa fa un editore, un editore è uno che fa, insieme, attività culturale e attività commerciale intorno al libro. Ma un salone o una fiera del libro, almeno in Italia, sono gli unici posti al mondo dove non si fa attività commerciale, almeno da parte degli editori, perché conti alla mano ci si va sempre in perdita (e lo si sa da ben prima di andarci, lo si mette in conto), mentre sull’attività culturale si può discutere a lungo. Si fa cultura essendo lì tutti insieme? Forse. Ma nella maggior parte dei casi i limiti della proposta culturale di una fiera o di un salone sono quelli costruiti intorno alla possibilità di incontrare il grosso scrittore di turno, sceso sulla terra per noi come il vitello d’oro. Non c’è altro, né si chiede altro al Contenitore, non un contenuto forte, quanto piuttosto un personaggio che ha sposato un contenuto, un personaggio-contenuto insomma, infilato a sua volta nel contenitore come in una sorta di Matrioska. È vero che è così dovunque e in ogni altra occasione, ormai, che questo è il sistema, solo che una fiera amplifica il sistema, non lo contraddice, perché gli fa comodo: perché diventare un Contenitore di incontri con personaggi-contenuto che fanno audience porta denaro al Contenitore stesso. Questa è cultura? Io pubblico vado a vedere l’autore figo, proprio come andrei a vedere l’attore figo a Venezia, ma con più contenuto in corpo, e voglio essere nella stessa stanza con lui, non sono lì per ciò che dice, che è secondario, ma perché lo dice lui. Infatti per ogni autore figo ci sono decine di incontri deserti intorno, con decine di autori che avrebbero anche cose interessanti da dire ma vengono semplicemente ignorati per l’eccesso di offerta, e per i quali i loro editori pagano l’affitto della sala-deserto in cui si esibiranno e poi si sforzano di fare foto da angolazioni strane per non far vedere il deserto, da postare sui social. Perché quando si fa cultura tutto ha un costo. I piccoli autori, però, sono contenti uguale, anche di parlare di fronte al vuoto della sala, nel mezzo del deserto, perché non conta più cosa stai dicendo e a chi, ma dove lo dici, cioè nel Contenitore-conclave, lì dove sei qualcosa in più. Io lo trovo sempre molto triste alla fine, ma confesso che mentre sono lì mi ci entusiasmo anche, è il dopo sbornia che mi uccide. Intanto sono lì, parte di una comunità in cui mi sento vivo, e anche se magari molti di loro, pur non confessandolo, portano un mantellino rosso cardinalizio sotto i vestiti.

domenica 12 maggio 2019

le cose più belle del salone (per me)

1.La prima in assoluto, quando a una presentazione, ero seduto dietro, si apre uno spiraglio nel pubblico e Nadia Terranova, che sta presentando una scrittrice, si è girata verso di me e mi ha sorriso, cioè proprio a me, non a quello seduto dietro o a fianco, e io ero talmente contento che le ho risposto con la V di vittoria (che non c’entrava nulla, ma…); 
2.Il mio vecchio cappello da baseball nero, che ho perso regolarmente dovunque in Europa (da Madrid a Siracusa) e anche stavolta al Salone, ma è stato eroicamente ritrovato al largo dei bastioni di Orione, vicino alle porte di Tannhäuser, da Angelo Biasella e Francesco Coscioni di Neo Edizioni, che ringrazio perché sono super, come persone e come editori; 
3.La ragazza sconosciuta che a cena si avvicina e mi dà uno scontrino: tieni, ti regalo un gelato al limon! 
4.Marianna Carabellese che si abbassa nei selfie se no fa notare quanto sono più basso di lei; 
5.Due chili di libri fra regalati e acquistati che mi sono dovuto rispedire a casa perché in aereo pesavano troppo; 
6.Les Flâneurs Edizioni e Interno Poesia che erano lì per la prima volta con uno stand tutto loro, con quel misto di apprensione e di ambizione di chi vuol provarci, e anche se io quel coraggio (e quella fiducia) non ce l’ho, credo che sia bello e faccio il tifo per loro; 
7.Tutti gli amici visti, rivisti, stravisti, ritrovati, anche dopo anni, che ti salutano e ti fanno: “Lillo, come va?” come se vi foste lasciati il giorno prima. E tu pensi che l’editoria, proprio come il mondo, è fatta di AMICIZIA. Lo diceva Saba e io penso che aveva ragione lui.

la grande festa

Sempre più, a ogni anno che ci vado in varie vesti, il Salone del Libro mi sembra simile a un enorme corpo che si nutre di se stesso. Istituzione del Libro, vive divorando gli stessi editori che il Libro fanno, mungendoli di tutto ciò che hanno (soldi, tempo, energie) in vista del grande sogno: pubblicità per una settimana, contatti, vendite necessarie a tamponare in parte le spese ingenti. Un luogo dove tutto ha un costo, persino l’aria che respiri e dove in realtà i libri sono il pretesto per l’evento e non viceversa, proprio come a Sanremo. Tutto inutilmente, visto che alla fine, per usare la metafora kennediana, la festa generale della cultura camuffa gli ingranaggi economici per cui quello che prende il Salone agli editori è sempre qualcosa in più di quello che ricevono gli editori dal Salone, anche quando negano la cruda realtà parlando della necessità di esserci. Necessità, ovviamente, imposta dal sistema culturale per cui o ci sei o non sei. In quest’ottica è quasi singolare che nel 2019 l’unico editore che sia riuscito a strappare al Salone tutto ciò che il Salone promette senza dare sia l’editore fascista scacciato dal Salone stesso e per questo non fagocitato dalla macchina tritacarne in cui la cultura di rigira beata come un maiale nel fango. Altaforte, scacciato dal tempio della cultura in nome di una purezza che non esiste più da un pezzo, e rigettato attraverso il gossip nel mondo là fuori, ne ricava – in scorno agli altri editori – pubblicità, la sua settimana di gloria mediatica e vendite senza spese, il massimo che dal Salone si possa ottenere non perdendo un briciolo della propria identità politico-culturale che poi è stata la vera pietra dello scandalo. E intanto che si gridava alla vittoria (simbolica) della cultura sul fascismo, a Casal Bruciato una famiglia rom veniva minacciata dalla presenza di Casa Pound, e mentre il sindaco Raggi andava a trovarla (quello sì un gesto forte e deciso), Di Maio dichiarava che vengono prima gli italiani. Dunque esattamente, che vittoria contro il fascismo è stata? A me pare che il Salone, come corpo culturale, ancora una volta abbia rifiutato il confronto in nome della festa dietro cui girano i soldi (anche se mi rendo conto che c’erano troppi interessi in gioco per una tale fermezza). Quando, a mio avviso, avrebbero dovuto semplicemente rileggersi il messaggio insito nella parabola del figlio prodigo: non è scacciando tuo figlio/fratello peccatore che risolvi il problema, ma riaccogliendolo in casa e mettendolo di fronte alle proprie responsabilità famigliari.

giovedì 2 maggio 2019

panico al salone

Un giovedì di panico, quando cerchi di fare l'accredito professionale al Salone del Libro di Torino e scopri che quest'anno sono diventati più fiscali che alla Casa Bianca e ti chiedono: 
1) la foto seria da mettere sul badge, lì dove ti accorgi che fra centinaia che te ne sei fatto non ce n'è una (una sola!) in cui sei serio; 
2) chi è quello vero fra i due: il Vitantonio Lillo-Tarì dei documenti o l'Antonio Lillo che sta sulle copertine dei libri e quando tu rispondi incautamente che sono veri tutti e due, puntualizzano che questo è il Salone del Libro di Torino, mica un romanzo di Pessoa, e dovendo sceglierne una sola ti perdi fra le due identità.

martedì 15 maggio 2018

sull’utilità o meno di cantare azzurro

Nelle ultime settimane mi è capitato per vari motivi di assistere più volte a delle presentazioni di Franco Arminio in cui, nel momento culminante dell’incontro, canta col pubblico. La performance in genere comincia con Azzurro di Paolo Conte (per sciogliersi) e continua con un canto del luogo secondo un canovaccio bene codificato. Lo stesso Arminio, nell’ultimo incontro in cui ho assistito parlava di “ritualità” richiamando certi schemi della liturgia rivisti in chiave laica. Quello che fa non solo è bello e coinvolgente, ma riesce a spezzare il rigido muro della convenzionalità in cui il pubblico assiste intimidito al dialogo fra autore e relatore per un rapporto diretto, molto fisico, con lo stesso pubblico, che apprezza. Si adatta, inoltre, molto bene alla sua personalità e al suo bisogno di istrionismo, e quindi in sé, in ciò che fa, non c’è nulla di male, anzi. Per quanto, come lui stesso ammette, i “saccenti della poesia” storcano il naso, richiamando le stesso polemiche che animarono la vittoria del Nobel da parte di Bob Dylan. Con una differenza, Dylan era ed è sempre stato un cantante con maggiore o minore forza poetica in base ai gusti. Arminio è un poeta che si presta alla canzone. Il dubbio, devo dire lecito, non è tanto in ciò che fa Arminio, ma in cosa recepisce il pubblico che già di per sé è ineducato al linguaggio poetico e forse in questo caso viene del tutto fuorviato. Molti di coloro che assistono alle performance di Arminio non sono lettori abituali di poesia, sono lettori di Arminio che comprano il suo libro perché è scritto da Arminio, non perché è di poesia. Lì dove invece uno compra Montale o Caproni (ad esempio) perché vuole la poesia di Montale, la poesia di Caproni ecc. Anzi, in questo modo non si avvicineranno alla poesia ma la troveranno sempre più noiosa di quello che è, perché Arminio ha mostrato loro cosa può essere una serata di poesia in cui si canta Azzurro. Quello che si teme è che Azzurro alla fine dei conti diventi il fine e non il mezzo, che il pubblico vada lì perché si canta tutti insieme e non per discutere di letteratura e idee. Il che è bello nell’ottica dell’evento, meno in quella della letteratura. Arminio dice che la cosa è fatta per ritrovare una convivialità di popolo in linea con la sua poetica e anche per alleggerire la serata, per coinvolgere chi la poesia non la legge. Ma è davvero giusto? E se uno la poesia la legge e volesse approfondire determinate tematiche, come fa a sottrarsi al rituale di gruppo? E poi, cosa resta nel lettore a parte Azzurro? Me lo chiedo senza avere una risposta. Non sono che dubbi i miei, nati al Salone. Durante il quale, quest’anno, era presente una scrittrice enorme come Herta Müller. Mi sono chiesto, di fronte al silenzio quasi religioso (a sua volta rituale) con cui veniva ascoltata: ma se Herta Müller venendo qui, invece di parlare della sua opera e di cosa la ispirava, avesse detto al popolo dei suoi lettori: ok, adesso cantiamo Azzurro per ritrovare un po’ di intimità, poi facciamo un canto in torinese, poi ne facciamo uno tradizionale del mio paese, poi vi leggo una o due pagine da un mio libro e ce ne andiamo tutti a casa, ecco, mi sono chiesto, ma il popolo dei lettori della Müller (un popolo preparato sui suoi libri) sarebbe stato altrettanto contento del popolo della poesia di Arminio? E se il popolo della poesia che va da Arminio per cantare si fosse trovato di fronte a una presentazione di Andrea Zanzotto, che usava un linguaggio complesso, stratificato, ammantandolo di ironia, ma senza mai banalizzarlo, richiedendo invece una continua attenzione, mentre affrontava tematiche importanti come quella ecologica, che avrebbe pensato: che bello oppure che palle? Questo mi sono chiesto, senza puntare il dito contro Arminio che fa semplicemente il suo lavoro, ma interrogandomi sugli scopi e i desideri del pubblico. Non è che a volte è proprio il popolo della poesia che aggira l’ostacolo del linguaggio, intanto che va a una serata di “poesia”, e si rifugia nel canto puro e semplice per evitare di parlare e di pensare, di esigere le cose ben più serie che ogni buon verso racchiude?

lunedì 14 maggio 2018

pensieri sparsi sul salone del libro (a caldo)

Più di una volta, in un festival che dice di celebrare la parola, mi sono sentito offeso da situazioni in cui la parola veniva di continuo affossata nel rumore. Non parlo del pubblico, ma proprio della situazione logistica per cui se andavi a sentire certi autori che avevi a cuore di sentire – cito a caso Bajani, Buffoni, Villalta, Pontiggia, alcuni poeti pubblicati da puntoacapo – li ritrovavi ad annaspare fra lo tunz-tunz-tunz della musica da discoteca sparata a palla da un qualche stand vicino e le atmosfere da concerto di altri. E mi è venuto da chiedere: ma chi ha sistemato gli stand in base a quale criterio lo ha fatto? 
Più di una volta, a tal proposito, mi sono ritrovato a pensare a quei poveracci finiti nella tendopoli rinominata padiglione 4 come a degli sfigati e ho avuto dispiacere per loro. Sono io evidentemente che non so adattarmi alle situazioni e chiedo scusa, ma del resto l’importante è esserci, mica partecipare. 
Più di una volta, non sono riuscito a partecipare a incontri che avevo a cuore perché gli spazi di incontro erano troppo piccoli per gli ospiti invitati e così mi toccava restare fuori, io con altre decine di persone come me, che magari (loro) si chiedevano perché avevano speso 10 euro di biglietto per entrare dentro al salone e restare fuori dall’incontro per cui avevano pagato. 
Più di una volta mi è passato per la testa, mentre mi rendevo conto che quest’anno, come ogni anno, andavo in perdita di parecchie centinaia di euro, che tutti siamo contrari all’editoria a pagamento, ma poiché gli editori piccoli come me non hanno risorse illimitate da investire sui nuovi autori, ogni volta che vai a una fiera come quella di Torino sapendo già di andare in perdita (ma investendo, come si dice, in immagine) tutte le volte che vai a una fiera così, ci sarà un autore che non verrà pubblicato perché i soldi che potevi usare per aiutare lui/lei li hai donati alla fondazione che sta dietro all’organizzazione della fiera (questa o quella che sia). Ma l’importante è dare soddisfazione al popolo. 
Più di una volta mi sono detto che al Salone, per quanto si dica che sia un luogo di incontro e di scambio, un sacco di quelli che incontri vanno sempre di fretta, non ti salutano mai come si deve, non ti sorridono mai con quel minimo di calore che fa la differenza. Per cui ti viene da pensare che o non hanno veramente piacere di incontrarti, oppure non hanno (ancora) bisogno di te. 
Nota a margine. Mi è capitato di assistere a due incontri del circuito off del salone. In uno si parlava dell’attuale situazione in Turchia, nell’altro, a meno di cento metri da lì, si cantava tutti insieme appassionatamente Azzurro. Nel primo i convenuti erano una quindicina. Nell’altro un centinaio. Così ho pensato un mucchio di cose sull’utilità e sul senso di cantare Azzurro, che però vorrei mettere in un altro post perché le ritengo importanti e non vorrei essere frainteso a sintetizzarle, ma ho pensato anche che, tutto sommato, il Salone è stato proprio questo.

martedì 2 maggio 2017

al salone, al salone

Per la seconda e forse ultima volta saremo al prossimo Salone. Saremo piccolini e in disparte ma saremo, come vermi nella mela. Il programma, ho visto, è pieno di poesia, compresi incontri su Bob Dylan, compreso Paolo Nori, e Francesco Piccolo che legge i poeti contemporanei, e Milo de Angelis e Rondoni e Franco Arminio. Quindi consiglio di andare a cercarla la poesia, perché se la cerchi la trovi, bisogna insistere e prima o poi qualcuno te la dà. In mezzo alla poesia ci saremo anche noi di Pietre Vive Editore, ma in incognito, con quell'atteggiamento di chi dice: ma mi si nota di più se me ne sto nell'angolo in disparte o se vado a vedere la Ciabatti, con grazia pop di chi non se la tira con la storia che la poesia è superiore? Ma superiore a chi, a che cosa? E dove? Ecco, se vedete uno scemo con la barba che ride in mezzo a una massa di scemi che discettano di quanto sono fighi i poeti contemporanei estinti, quello sono io. Oppure è Guido Catalano, uno dei due.