Leggo molti post amareggiati o simil-amareggiati dalla notizia che anche PLPL, come tutti i grandi eventi librari del 2020, non si terrà quest’anno e credo di essere l’unico – ma lo so bene che non è così – a pensare che male realmente non farà a nessuno. Si dipende troppo da queste fiere o saloni del libro che, per quanto “etici” possano dirsi alla base, si risolvono sempre in una rappresentazione talvolta stucchevole, più spesso simile a un conclave laico, con gli editori che parlano della bellezza di ritrovare un rapporto con pubblico (come se non lo incontrassero altrove, il pubblico), ma che in realtà sono entusiasti soprattutto di potersi re-inquadrare in una comunità di fedeli – i centinaia di fedeli del Libro, cioè gli editori stessi, più gli autori (degli altri) più una parte dei lettori, visto che un’altra grossa parte ci va come si va ai Centri commerciali, per passare il fine settimana “diverso” – al punto che gli editori investono anche ingenti somme di denaro, ogni anno, per esserci. Esserci = apparire all’interno del rito, in questo caso vale più che guadagnare, tradendo addirittura la natura commerciale della propria attività. A chi si chiede cosa fa un editore, un editore è uno che fa, insieme, attività culturale e attività commerciale intorno al libro. Ma un salone o una fiera del libro, almeno in Italia, sono gli unici posti al mondo dove non si fa attività commerciale, almeno da parte degli editori, perché conti alla mano ci si va sempre in perdita (e lo si sa da ben prima di andarci, lo si mette in conto), mentre sull’attività culturale si può discutere a lungo. Si fa cultura essendo lì tutti insieme? Forse. Ma nella maggior parte dei casi i limiti della proposta culturale di una fiera o di un salone sono quelli costruiti intorno alla possibilità di incontrare il grosso scrittore di turno, sceso sulla terra per noi come il vitello d’oro. Non c’è altro, né si chiede altro al Contenitore, non un contenuto forte, quanto piuttosto un personaggio che ha sposato un contenuto, un personaggio-contenuto insomma, infilato a sua volta nel contenitore come in una sorta di Matrioska. È vero che è così dovunque e in ogni altra occasione, ormai, che questo è il sistema, solo che una fiera amplifica il sistema, non lo contraddice, perché gli fa comodo: perché diventare un Contenitore di incontri con personaggi-contenuto che fanno audience porta denaro al Contenitore stesso. Questa è cultura? Io pubblico vado a vedere l’autore figo, proprio come andrei a vedere l’attore figo a Venezia, ma con più contenuto in corpo, e voglio essere nella stessa stanza con lui, non sono lì per ciò che dice, che è secondario, ma perché lo dice lui. Infatti per ogni autore figo ci sono decine di incontri deserti intorno, con decine di autori che avrebbero anche cose interessanti da dire ma vengono semplicemente ignorati per l’eccesso di offerta, e per i quali i loro editori pagano l’affitto della sala-deserto in cui si esibiranno e poi si sforzano di fare foto da angolazioni strane per non far vedere il deserto, da postare sui social. Perché quando si fa cultura tutto ha un costo. I piccoli autori, però, sono contenti uguale, anche di parlare di fronte al vuoto della sala, nel mezzo del deserto, perché non conta più cosa stai dicendo e a chi, ma dove lo dici, cioè nel Contenitore-conclave, lì dove sei qualcosa in più. Io lo trovo sempre molto triste alla fine, ma confesso che mentre sono lì mi ci entusiasmo anche, è il dopo sbornia che mi uccide. Intanto sono lì, parte di una comunità in cui mi sento vivo, e anche se magari molti di loro, pur non confessandolo, portano un mantellino rosso cardinalizio sotto i vestiti.
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