Ho visto Charlie Simić che, assecondando il suo strambo gusto per le occasioni, veniva a trovarmi in forma di zanzara. Mi portava a letto la sua lieta novella, ronzando nella penombra della stanza. Io lo ascoltavo con sospetto e innervosito dalle sue ciarle insinuanti: più lui si avvicinava all’orecchio e meno lo capivo, mi rigiravo nel letto per scostarlo o provavo a mollargli una sberla perché rinsavisse e tornasse a una lingua più terrena. Ma lui, ormai dotato di ali leggere, nemmeno ci provava a darmi retta. Stammi a sentire, ascoltami, insisteva, dopo questo buio della stanza c’è solo il buio della notte là fuori e dopo quello un buio più fondo della notte e senza luna, un buio interstellare, un buco nero già pronto a divorarci. Il suo compito era quello di scuotermi dal sonno a cui mi avviavo, di riportarmi alla ragione, ma senza più il conforto di una sola battuta, perché avrei dovuto ascoltarlo? Così mi negavo, esausto e offeso: Charlie, Charlie, perché non mi lasci in pace. Dopo una lunga e fastidiosa rincorsa l’ho agganciato finalmente sulla guancia, mentre provava a darmi un bacio, spiaccicandolo ben bene sulla carne. Povero Charlie. M’è rimasto il corpo a pezzi fra le dita, le zampine nere che ancora vibravano nell’aria. Mi sono ripulito alla meglio strofinandolo contro il pigiama, poi mi sono rigirato dall’altra parte.
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