Ieri parlavo con un mio amico che ha vissuto metà della sua vita in Africa, e mi spiegava che molti dei migranti che arrivano qui, perlomeno da certe zone, lo fanno perché sta finendo l'acqua, c'è un processo di desertificazione in corso, l'acqua potabile scarseggia sempre di più, e così vengono meno le possibilità di sostentarsi con l'agricoltura e la pastorizia. Se tu a un pastore togli la possibilità di nutrire il suo gregge non gli resta più nulla. E senza più lavoro che fai? Così, continuava il mio amico, quando si dice aiutiamoli a casa loro bisognerebbe pensare che quelli che servono sono aiuti concreti, investimenti in canalizzazione dell'acqua, pozzi artesiani, piccole centrali elettriche, strade. Non sono enormi investimenti ma se non siamo buoni a farli a casa nostra, come possiamo pensare di andare a scavare pozzi lì? Fatto sta che, per ironia della sorte, questi migranti scappano da una tremenda carenza d'acqua e si fanno un viaggio in mare con il rischio concreto di morire per acqua, di bere tanta di quell'acqua come non l'hanno mai vista in vita loro. E nonostante i tantissimi morti (perché sono tantissimi quelli che nemmeno sappiamo) ogni giorno guardo al Tg i nuovi sbarchi, di ieri, di oggi, di domani. La situazione è incontenibile. Quest'anno abbiamo pubblicato un libro che parla delle vicissitudini di una delle tante donne che arrivano qui: Cantare del deserto di Elvio Ceci. E fra i tanti commenti che mi sono arrivati sul libro due mi hanno particolarmente colpito nella loro criticità. Il primo diceva che è un libro che non venderà tanto perché è “pesante”, la gente ha bisogno di svagarsi e andare al mare, non di caricarsi di altri problemi. Ed è vero, purtroppo, il mare è tanto cose, a qualcuno fa da bara e a qualcun altro dà relax, e non è detto che uno voglia entrambe le cose insieme. E il secondo è che se è scritto in rima allora non è adatto a toccare la gravità del problema, perché le cose serie – dove provi a capire i fatti – oggi si scrivono in prosa. Io ho replicato che è una fesseria, che da sempre si usa la poesia per parlare dei problemi di un popolo; che molti popoli migranti compongono lunghi poemi in rima per ricordarseli, perché non hanno carta e penna e usano soltanto la memoria per tramandarli e leggerli. E mi hanno risposto che certo, è stato vero a lungo, ma noi non siamo migranti e quindi per noi vige la regola della carta e penna, dei libri stampati. Ovvero, per quanto tu possa sforzarti di capirli noi siamo noi e loro sono loro, per sempre divisi da tutto questo mare.
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