Stamattina
pensavo che almeno fino a tutti gli anni '70 gli scrittori in prosa del
nostro paese nascevano poeti (vedi Pavese) o venivano dalla poesia
(alcuni, come Parise, si definivano poeti anche quando scrivevano in
prosa), o scrivevano 'anche' poesia andando e tornando fra i due
linguaggi (Pasolini), o comunque frequentavano con assiduità il
linguaggio dei poeti o i poeti stessi (Calvino, Gadda). Persino i più
insospettabili (come Fenoglio con Coleridge) si dilettavano di
traduzioni in versi. Tutti questi rapporti di scambio, ovviamente,
nascevano a scuola, dove lo studio dei classici contemplava la lettura
attenta dei poeti. Poi c'è stato una sorta di stacco, di allontanamento,
o se si preferisce di tracollo o decadimento e della scuola e dei
programmi scolastici e qualcosa si è perso. Né si ritiene necessario. E
mi è venuto da pensare che forse uno dei motivi dell'impoverimento
linguistico, e immaginifico, e metaforico dei romanzi di oggi sia
derivato proprio da questo allontanamento dei poeti, o per meglio dire
dal pensare che si possa scrivere in prosa anche senza poesia. Non solo,
ma se un poeta prova a scrivere in prosa gli dicono che probabilmente
non sarà capace, perché la prosa è un'altra cosa, non c'entra nulla con
la poesia. Così, una volta, se uno scrittore parlava per tre pagine di
fila di una mela marcia sul tavolo di una cucina dimessa voleva creare
con le parole una metafora del mondo e del tempo, adesso spesso e
volentieri scimmiotta le indicazioni di una sceneggiatura (la ripresa
della mela con lo stacco sulla mosca agitata o sulla goccia d'acqua che
perde dal lavandino!) per vedere se magari qualcuno si interessa e ne
fanno un film, oppure gliela tagliano in fase redazionale del testo
perché tre pagine con la descrizione di una mela annoiano
irrimedabilmente il pubblico dei lettori.
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