mercoledì 22 luglio 2020

la descrizione di una mela

Stamattina pensavo che almeno fino a tutti gli anni '70 gli scrittori in prosa del nostro paese nascevano poeti (vedi Pavese) o venivano dalla poesia (alcuni, come Parise, si definivano poeti anche quando scrivevano in prosa), o scrivevano 'anche' poesia andando e tornando fra i due linguaggi (Pasolini), o comunque frequentavano con assiduità il linguaggio dei poeti o i poeti stessi (Calvino, Gadda). Persino i più insospettabili (come Fenoglio con Coleridge) si dilettavano di traduzioni in versi. Tutti questi rapporti di scambio, ovviamente, nascevano a scuola, dove lo studio dei classici contemplava la lettura attenta dei poeti. Poi c'è stato una sorta di stacco, di allontanamento, o se si preferisce di tracollo o decadimento e della scuola e dei programmi scolastici e qualcosa si è perso. Né si ritiene necessario. E mi è venuto da pensare che forse uno dei motivi dell'impoverimento linguistico, e immaginifico, e metaforico dei romanzi di oggi sia derivato proprio da questo allontanamento dei poeti, o per meglio dire dal pensare che si possa scrivere in prosa anche senza poesia. Non solo, ma se un poeta prova a scrivere in prosa gli dicono che probabilmente non sarà capace, perché la prosa è un'altra cosa, non c'entra nulla con la poesia. Così, una volta, se uno scrittore parlava per tre pagine di fila di una mela marcia sul tavolo di una cucina dimessa voleva creare con le parole una metafora del mondo e del tempo, adesso spesso e volentieri scimmiotta le indicazioni di una sceneggiatura (la ripresa della mela con lo stacco sulla mosca agitata o sulla goccia d'acqua che perde dal lavandino!) per vedere se magari qualcuno si interessa e ne fanno un film, oppure gliela tagliano in fase redazionale del testo perché tre pagine con la descrizione di una mela annoiano irrimedabilmente il pubblico dei lettori.

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