lunedì 14 maggio 2018

pensieri sparsi sul salone del libro (a caldo)

Più di una volta, in un festival che dice di celebrare la parola, mi sono sentito offeso da situazioni in cui la parola veniva di continuo affossata nel rumore. Non parlo del pubblico, ma proprio della situazione logistica per cui se andavi a sentire certi autori che avevi a cuore di sentire – cito a caso Bajani, Buffoni, Villalta, Pontiggia, alcuni poeti pubblicati da puntoacapo – li ritrovavi ad annaspare fra lo tunz-tunz-tunz della musica da discoteca sparata a palla da un qualche stand vicino e le atmosfere da concerto di altri. E mi è venuto da chiedere: ma chi ha sistemato gli stand in base a quale criterio lo ha fatto? 
Più di una volta, a tal proposito, mi sono ritrovato a pensare a quei poveracci finiti nella tendopoli rinominata padiglione 4 come a degli sfigati e ho avuto dispiacere per loro. Sono io evidentemente che non so adattarmi alle situazioni e chiedo scusa, ma del resto l’importante è esserci, mica partecipare. 
Più di una volta, non sono riuscito a partecipare a incontri che avevo a cuore perché gli spazi di incontro erano troppo piccoli per gli ospiti invitati e così mi toccava restare fuori, io con altre decine di persone come me, che magari (loro) si chiedevano perché avevano speso 10 euro di biglietto per entrare dentro al salone e restare fuori dall’incontro per cui avevano pagato. 
Più di una volta mi è passato per la testa, mentre mi rendevo conto che quest’anno, come ogni anno, andavo in perdita di parecchie centinaia di euro, che tutti siamo contrari all’editoria a pagamento, ma poiché gli editori piccoli come me non hanno risorse illimitate da investire sui nuovi autori, ogni volta che vai a una fiera come quella di Torino sapendo già di andare in perdita (ma investendo, come si dice, in immagine) tutte le volte che vai a una fiera così, ci sarà un autore che non verrà pubblicato perché i soldi che potevi usare per aiutare lui/lei li hai donati alla fondazione che sta dietro all’organizzazione della fiera (questa o quella che sia). Ma l’importante è dare soddisfazione al popolo. 
Più di una volta mi sono detto che al Salone, per quanto si dica che sia un luogo di incontro e di scambio, un sacco di quelli che incontri vanno sempre di fretta, non ti salutano mai come si deve, non ti sorridono mai con quel minimo di calore che fa la differenza. Per cui ti viene da pensare che o non hanno veramente piacere di incontrarti, oppure non hanno (ancora) bisogno di te. 
Nota a margine. Mi è capitato di assistere a due incontri del circuito off del salone. In uno si parlava dell’attuale situazione in Turchia, nell’altro, a meno di cento metri da lì, si cantava tutti insieme appassionatamente Azzurro. Nel primo i convenuti erano una quindicina. Nell’altro un centinaio. Così ho pensato un mucchio di cose sull’utilità e sul senso di cantare Azzurro, che però vorrei mettere in un altro post perché le ritengo importanti e non vorrei essere frainteso a sintetizzarle, ma ho pensato anche che, tutto sommato, il Salone è stato proprio questo.

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