Stasera, rivedendo Il maestro di Vigevano (1963) di Elio Petri, pensavo che nel film Alberto Sordi, forse per via del taglio di capelli e degli occhiali, assomigliava terribilmente a Cesare Pavese. Pensavo anche che le due scene più drammatiche di tutta la sua filmografia sono girate sul ciglio di una strada e per colpa di una donna che lo lascia. In entrambi i casi i due personaggi da lui interpretati vengono lasciati perché incapaci di adattarsi alle nuove regole imposte dal boom economico. Sono persone integre e perciò inadatte a vivere il clima sfaccettato dei nuovi tempi. In questo caso, quando si rende conto che sua moglie lo tradisce con un altro, il maestro Antonio lancia un urlo straziato mentre la vede scappar via sull’auto dell’amante, prima di accasciarsi a terra. Nell’altro film, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, del tutto ubriaco dopo essere stato lasciato per l’ennesima volta da sua moglie, il giornalista Silvio comincia a sputare sulle auto che lo sorpassano in un’alba senza sole, mentre suona Ciao, ciao, bambina di Domenico Modugno. In entrambi i casi l’automobile è il simbolo di un male che incombe inesorabile sull’innocenza del protagonista. Nel primo film si porterà via moglie e amante in un incidente mortale. Nel secondo sarà il simbolo dell’avvenuta corruzione di Silvio, che si presenterà al funerale della suocera a bordo di un modello lussuoso, pronto a impressionare sua moglie coi lustrini per riprendersela. Il riscatto finale di Silvio, in questo caso, per quanto affascinante sia, pare più un lieto fine posticcio a una storia già scritta, quella girata ancora una volta da Risi, e senza più nemmeno la scusa di un amore finito, nel Sorpasso (1962).
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