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domenica 29 marzo 2015

povero jannacci

Sono due anni oggi dalla morte di Enzo Jannacci e, devo dire, è ancora incredibilmente difficile trovare in giro molta della sua musica, spesso interi dischi. Forse perché Jannacci non è mai stato un autore "radiofonico" (Vengo anch'io a parte). Spesso era decisamente troppo colto e triste per l'ascoltatore medio, e anch'io adesso, che gli volevo fare l'omaggio, stavo cadendo nell'errore di pubblicare un pezzo triste, disperato (Il panettiere, che parla di un suicida) oppure uno colto (la sua versione di Via del campo, che in effetti passa per un pezzo di De Andrè, ma la musica De Andrè l'ha rubata a Jannacci). Alla fine metto una canzone che, invece, è semiseria, la paraculata di un successo radiofonico di Joe Cocker e di tanti suoi colleghi, ed è un po' la terza via di Jannacci, perché la tristezza, se non sai ridere, è solo una tristezza a metà. Jannacci la canta con tanta di quella paraculaggine che ti viene voglia di cantarla con lui. Da provare, per credere.

giovedì 30 maggio 2013

dark eyes

[…] Alcuni anni prima, a New York, (Arthur) Baker mi aveva aiutato a produrre Empire Burlesque. Tutte le canzoni erano già mixate e finite, solo che Baker insisteva che alla fine del disco avremmo dovuto mettere una canzone acustica, così da portare il tutto alla giusta conclusione. Ci riflettei. Aveva ragione, ma non avevo niente sottomano. La sera che finimmo l’album gli dissi che avrei visto cosa potevo tirar fuori, e che ne capivo l’importanza. Stavo al Plaza Hotel sulla 59th Street. Al mio ritorno era passata la mezzanotte, avevo attraversato l’atrio ed ero diretto ai piani superiori. Appena uscii dal’ascensore vidi una ragazza squillo venire verso di me nel corridoio, capelli biondo pallido e cappotto di volpe, scarpe dai tacchi alti, fatte apposta per lacerare un cuore. Aveva cerchi blu intorno agli occhi, un ombretto nero, occhi neri, l’aspetto di una che è stata picchiata e ha paura che verrà picchiata di nuovo. In mano teneva un bicchiere di vino color cremisi e porpora. “Muoio di sete” disse mentre mi passava accanto nel corridoio. La sua bellezza non era fatta per questo mondo. Povera disgraziata, condannata a percorrere quel corridoio per mille anni.

Più tardi, quella stessa notte, mi sedetti a una finestra che dava sul Central Park e scrissi Dark Eyes. La registrai la sera dopo con la chitarra acustica e nient’altro, ed era quello che ci voleva. Adesso l’album era finito.

(Bob Dylan)

mercoledì 10 aprile 2013

time after the world

Non che lo adori, ma in linea di massima trovo che sia ingiusto chi dice che Miles elettrico, quello degli anni’70 e ‘80, non avesse più nulla da dire. Per quanto alcune derive pop, soprattutto negli anni ’80, lascino perplessi, ci sono molte belle cose nel repertorio dell’ultimo Miles, soprattutto nei dischi dal vivo. In particolare, oggi ho ascoltato una raccolta di pezzi live che ripercorre i suoi ultimi tre anni di vita (dal 1988 al 1991): si intitola Live Around the World ed è stupenda, con un suono brillante e molto funky ma assolutamente Miles, quella sottile vena di amarezza e ostinazione che caratterizza i suoi lavori migliori, che ammalia senza possibilità di replica. Dura un’ora e dieci questo disco, e non si sente proprio. In assoluto, per me, la cosa più bella della seconda parte della sua carriera.

martedì 16 ottobre 2012

keaton

Keaton, canzone scritta da Claudio Lolli e interpretata da Guccini in Signora Bovary del 1987, è l'esempio perfetto della differenza che corre fra talento e genio. Il bellissimo racconto picaresco di Lolli viene trasformato da Guccini in una più grande metafora del dolore e della solitudine degli artisti, attraverso l'aggiunta, alla fine della canzone, di un paio di strofe che all'improvviso sovrappongono gli ultimi giorni di un pianista di provincia (di cui parla il testo originale) a quelli del grande attore del cinema muto, ormai finito, e di cui il pianista aveva assunto, ironicamente, il nome e forse anche il destino...

lunedì 18 ottobre 2010

la fringuella e l'uomo scimmia

Considerata una delle grandi e meno conosciute canzoni di Bob Dylan, Tweeter and the Monkey Man venne realizzata quasi per gioco per il primo album dei Traveling Wilburys, che qui fanno da coro. Era il 1988 e la carriera di Dylan era a un punto morto, salvo poi ripartire per un lungo, sbandato e intenso periodo, anche grazie al rilancio commerciale derivatogli da questo breve disco, registrato in amicizia e dal sapore facile e scanzonato. E infatti, del disco coi Traveling Wilburys, le canzoni con più fondo sono proprio quelle di Dylan: una è l’amara e sarcastica Congratulations (“Congratulazioni per avermi spezzato il cuore”), l’altra questa Tweeter and the Monkey Man, da intendersi come una spassosissima parodia di Bruce Springsteen, di cui Dylan non solo riutilizza le atmosfere, le immagini e i modi di dire da uomo di strada, ma cita quasi a ogni verso una sua canzone, meno che negli ultimi due dove, invece, cita se stesso, ricalcando alla perfezione il finale della sua Lily Rosemary and the Jack of Heart (1974), e così iscrivendola nel folto gruppo di canzoni-narrative o canzoni-copione, tanto sono cinematografiche, di cui Dylan è stato probabilmente il più grande maestro.
Già per il suo fraseggio e per il modo infuocato in cui la canta, questa canzone sarebbe rimarchevole. Ma di cosa parla Tweeter and the Monkey Man? Premettendo che, nonostante le citazioni, è stata scritta nel tipico stile frammentario di Dylan e quindi omette molti particolari, si può dire che in linea di massima racconta un noir dal sapore tragicomico e surreale, che anticipa certo cinema indipendente americano. La Fringuella (ovviamente un travestito) e l’Uomo Scimmia hanno fregato un poliziotto infiltrato nella malavita e probabilmente corrotto. Gli hanno rivenduto un finto carico di droga, e ora il poliziotto si vuole vendicare. In loro aiuto accorre la sorella del poliziotto, Jan, che è innamorata dell’Uomo Scimmia. Il finale resta più o meno aperto, anche se dalle ultime strofe si può dedurre che a raccontare la storia sia il marito di Jan, il malavitoso, a cui è crollata addosso (metaforicamente) la casa quando lei è scappata coi due imbroglioni. Quando si dice “casa” qui non si intende l’istituzione famigliare ma la casa del Capo (Mansion on the Hill è scritto nel testo originale, cioè la casa padronale), quella che dovrebbe rappresentare l’istituzione criminale di cui il marito di Jan è un boss, e in cui ha perso credibilità dopo che l’Uomo Scimmia l’ha fregato prima col finto carico di droga e poi portandogli via la moglie. Ovviamente nell’immagine del crollo della casa giù fino all’inferno, vi è un’eco dell’infernale Caduta della Casa Usher di Poe. E Dylan utilizzerà lo stesso punto di vista, quello di chi vede andar via la sua sposa con un altro, pochi mesi dopo ma con un taglio molto più drammatico e luciferino per un capolavoro ancora più grande, l’oscura Man in the long black coat, in Oh mercy (1989).



La Fringuella e l’Uomo Scimmia erano di nuovo senza un soldo
e avevano passato l’intera notte a vendere hashish e cocaina
a un poliziotto infiltrato con una sorella chiamata Jan
che per ragioni inspiegabili amava l’Uomo Scimmia

La Fringuella era stato un boyscout prima di finire in Vietnam
e di scoprire nel modo peggiore che a nessuno gliene frega un cazzo
i due sapevano di trovare la libertà appena passato il confine col Jersey
così saltarono su una macchina rubata e imboccarono la Highway 99

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

Al poliziotto infiltrato l’Uomo Scimmia non era mai piaciuto
persino da bambini voleva metterlo al fresco
Jan che a quattordici anni aveva sposato un malavitoso chiamato Bill
fece in segreto dalla casa del Capo una chiamata all’Uomo Scimmia

Accadde sulla Strada del Tuono, la Fringuella era al volante
si schiantarono in un paradiso sentendo stridere le proprie ruote
il poliziotto infiltrato li fermò e disse “Voi siete due bugiardi
e se non vi arrendete adesso, vi troverete nella merda”

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

Poi arrivò un’ambulanza, e poi un agente a cavallo
la Fringuella gli prese la pistola e gli mollò una botta in testa
il poliziotto infiltrato fu legato stretto a un albero
accanto al chiosco di souvenir vicino alla vecchia fabbrica abbandonata

Il giorno dopo il poliziotto era già all’inseguimento
era un fatto personale adesso, non gli fregava del malloppo
Jan gli aveva detto tante volte “Sei tu che l’hai insegnato a me
nel Jersey tutto è legale finché non ti prendono”

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

Rimasero senza benzina vicino alla prigione di Rahway
il poliziotto li incastrò dicendo “Mica avrete pensato che potesse durare”
Jan saltò giù dal letto e disse “Devo andare in un posto”
prese una pistola dal cassetto e poi “È meglio che tu non sappia dove”

Il poliziotto infiltrato fu trovato in un campo a faccia in giù
l’Uomo Scimmia era sul ponte del fiume e usava la Fringuella come scudo
Jan disse all’Uomo Scimmia “Non mi incantano i riccioli della Fringuella
lo conoscevo già prima che diventasse una ragazza del Jersey”

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

La città di Jersey ora è di nuovo tranquilla
me ne sto seduto in una casa da gioco chiamata la Tana del Leone
la televisione è stata fatta saltare, non ce n’è più nemmeno un pezzo
da quando al tg della sera hanno mostrato l’Uomo Scimmia

Credo che me ne andrò in Florida a prendere il sole
tutto è già stato fatto qui, non ho altre occasioni
a volte penso alla Fringuella, a volte penso a Jan
e a volte non penso a nient’altro che all’Uomo Scimmia

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

venerdì 27 novembre 2009

primamore

L’amore è strano, lo sanno tutti. Ti colpisce quando meno te lo aspetti e nella maniera più insolita, lasciandoti spesso in mano solo una manciata di ricordi, più o meno dolci, o amari. Il mio primo grandissimo amore, ad esempio, l’ho incontrato in terza media: era una ragazza di dieci anni più grande di me, con gli occhi grandi e verdi come quelli di un gatto, la pelle bianchissima che sembrava un’aliena, i capelli tagliati a zero e una voce di quelle che ti metteva i brividi addosso quando cantava. Si chiamava Sinead O’Connor, era irlandese e da quando l’ho vista per la prima volta su MTV, nel video di quella che ancora oggi è la sua canzone manifesto, Nothing compares 2U, per tutti i primi anni ’90 non potevo parlare di lei senza sentire un piccolo singhiozzo al cuore. Son cose che adesso fanno sorridere ma davvero a un ragazzino basta poco per sognare. Ci si può davvero innamorare della ragazza in un video? Certo! Io l’amavo così come mia cugina era cotta di Madonna e si discuteva sempre di chi fosse la migliore delle due. Ma non c’era storia. Madonna era finta, anticonformista solo per i soldi. La O’Connor era come Giovanna d’Arco, per metà santa e per metà guerriera.


Adoro quel video ancora adesso (lo linko qui perché impossibile da incorporare). Mi piace il modo in cui lei guarda decisa in macchina da presa e subito dopo abbassa o sposta lo sguardo di lato in maniera così schiva, quella lacrima che a un certo punto le si vede scendere lungo la guancia mentre canta e tu sai che non è finzione, che si è davvero commossa, il modo in cui modula la voce ora deciso ora tremante e anche se allora non capivo quasi nulla di quel che diceva sapevo che parlava al mio cuore. Era bellissima, e diversa da tutte le altre!
La canzone era pregna del suono degli anni ’80, che molti oggi detestano, ma ho sempre pensato che la musica di quel decennio fosse la più disperata di sempre, così legata alla poetica del carpe diem, del cogli l’attimo prima che sia troppo tardi. Di sicuro a ispirare tutto questo era l’ansia per le incerte sorti della guerra fredda, il consumismo imperante, il rampantismo assurto a stile di vita sul modello americano. E non per nulla a fine decennio venne girato quel capolavoro assoluto che è L’attimo fuggente, che mostrò alla mia generazione, cresciuta a dosi di tette e battutacce del Drive-in, le possibilità offerte dalla riscoperta del romanticismo e della poesia come unica alternativa alla volgarità e al grigiore del mondo. In quei giorni decine di ragazzi come me vennero grandemente colpiti dalla visione di quel film, che fu un po’ il nostro Gioventù bruciata. Forse non ebbe lo stesso impatto sociale, ma fu sufficiente. Ecco, la musica degli anni ’80 aveva lo stesso fascino malinconico e un po’ decadente.


La O’Connor veniva da quegli anni e quella canzone aveva qualcosa di quello spirito ma lei era diversa. Era Giovanna D’Arco, un po’ santa e un po’ guerriera. Lo si capì due anni dopo quando, ospite del Saturday Night Live, una delle più importanti trasmissioni televisive degli Stati Uniti, strappò in diretta, lei che da irlandese era una fervente cattolica, la foto di papa Giovanni Paolo II gridando “Combatti il vero nemico!” (e non intendeva ovviamente il papa in sé ma la Chiesa, in quei giorni coinvolta in una serie di scandali sulla pedofilia), scatenando così contro se stessa le ire dei benpensanti. Poco dopo venne invitata al Madison Square Garden a un concerto tributo per il trentennale della carriera di Bob Dylan. Avrebbe dovuto cantare I believe in you, una sentita preghiera a Dio scritta da Dylan a fine anni ’70, ma una volta sul palco il pubblico, ancora irritato da quanto successo in tv, cominciò a fischiarle contro impedendole di cantare. A quel punto successe qualcosa di incredibile: la O’Connor venne presa da sacro furore artistico, afferrò il microfono e cantò a cappella War di Bob Marley, cantò con tutta la rabbia che aveva in corpo fino a zittire un intero stadio. Finita l’esibizione lanciò un ultimo sguardo, di quelli che ti gelano il sangue, alla gente davanti a sé, poi si voltò e tornò dietro le quinte dove si abbandonò in lacrime fra le braccia di Kris Kristofferson. Fu una cosa straordinaria e secondo me fu l’apice della sua carriera (che dopo si affossò lentamente e senza rimedio), e anche di quella serata. Nella performance improvvisata della O’Connor rivisse lo stesso spirito che animò Dylan quella sera del 1966 in cui sfidò il pubblico di Manchester cantando a volume “fottutamente alto” Like a Rolling Stone dopo che qualcuno gli aveva gridato “Judas!” dalla platea. Fu lo stesso spirito che, passando attraverso l’anarchia del punk e di pochi altri eroi solitari, creò un filo invisibile che li legava, una linea tesa a delimitare i confini di una zona in cui ancora più di Nothing compares 2U quell’esplosione di rabbia e dolore, quell’esibizione dettata unicamente dall’istinto e dal coraggio avevano un senso. Quella linea che mostra la distanza che passa fra chi vuole fare i soldi e chi invece fa dell’arte.