L'ho letto adesso [QUI]: Keith Richards ha definito Sgt. Pepper spazzatura e una miriade di fan è partita con la polemica. Ma non ho capito dov'è la notizia che fa scandalo.
Bob Dylan già nel 1967 paraculava Harrison per Sgt. Pepper, che non gli piaceva, trovandolo un po' vacuo. Harrison, che al contrario era innamorato del suo John Wesley Harding gli chiedeva quanto tempo ci avesse messo per registrare un disco così bello e Dylan gli rispondeva ridendo "sei ore circa", cosa inconcepibile per Harrison che con Sgt. Pepper aveva perso circa sei mesi. E lo stesso John Lennon, in una celebre e incazzosa intervista del 1971, disse: "Quello era un progetto di Paul e solo di Paul!" come per tirarsene fuori.
La verità è che Sgt. Pepper (come molti critici hanno osservato) è più un prodotto della sua epoca che un'opera senza tempo, e come documento musicale del flower power è ancora splendido. Le cose imprescindibili dei Beatles, però, sono altre. La stessa Rolling Stones nella sua Storia del Rock fa notare come all'inizio degli anni '60 i Beatles fossero l'unico gruppo inglese ad avere radici rock'n'roll, in una Inghilterra che, dagli Stones agli Animals agli Yardbirds, non si era mai staccata dal blues revival. In questo senso i Beatles furono gli autentici apripista di una nuova corrente musicale che avrebbe portato all'altro grande filone della musica inglese, quello che va dai Who a Bowie ai Pink Floyd fino agli estremi di Elton John e del progressive. Contrapponendosi dunque all'evoluzione del blues rock operata dagli stessi Stones, Eric Clapton e Led Zeppelin.
Fatto sta che Sgt. Pepper, spazzatura o no, lo copiarono praticamente tutti per far soldi, Rolling Stones compresi, prima di ricredersi, grazie proprio al lavoro di Keith Richards (e subito dopo la cacciata di Brian Jones), per tornare finalmente al blues sporco e cattivo delle origini.
Uno degli ultimi lavori discografici di Bill Frisell, chitarrista americano fra i più grandi in circolazione, è del 2011 e riguarda una rivisitazione del songbook lennoniano. Il disco si intitola All we are saying ed è bello, secondo me, perché è uno di quegli omaggi che danno nuova linfa a un lavoro creativo ma col massimo rispetto, senza necessariamente doverlo snaturare per tirarne fuori il tuo messaggio. Qui pubblico un live tratto dal tour di promozione di quel disco, a La Villete Jazz Festival del 2012, consigliato soprattutto a coloro che ritengono che John Lennon fosse, anche musicalmente, qualcosa di più un autore di canzoni pop. I pezzi richiedono un pizzico di concentrazione in più rispetto agli originali, ma nemmeno troppa. Dalla seconda metà del concerto poi la musica diventa superlativa, in particolar modo nella fusione magica, fluttuante di In my Life e Strawberry Fields Forever, pezzi centrali dell'opera e del cuore di Lennon, e della storia musicale del secolo passato.
List: You've Got To Hide Your Love Away; #9 Dream; Come Together; Julia; Please Please Me; In My Life; Strawberry Fields Forever; Imagine
L’idea per questo pezzo è nato alcune sere fa, mentre non riuscivo a dormire, come ogni tanto mi capita e, per passare il tempo, cercavo su youtube un pezzo dei Fugazi fra i miei preferiti, I’m so tired, contenuto in Instrument Soundtrack, del 1999. I Fugazi sono una band alternativa di Washington, fra le più influenti degli anni ’90, che da alcuni anni non è più in attività, e praticano un genere parecchio aggressivo, definito post-hardcore, ma I’m so tired mi piace in particolar modo proprio perché non c’entra nulla con quel sound, è una lenta ballata pianistica, cantata in solitudine da Ian MacKaye, fondatore del gruppo e suo leader insieme a Guy Picciotto, scritto in uno di quei momenti in cui l’ansia e l’insonnia prevalgono sulla notte. La sua voce arranca nel fango, alla ricerca di uno spiraglio di luce.
Di lì a un paio di anni i Fugazi avrebbe sospeso qualsiasi attività musicale, i suoi membri avrebbero intrapreso altri progetti solistici e questo pezzo così malinconico pare quasi annunciare, in privato, quella fine mai realmente annunciata.
È stato dunque così, per caso, che mentre cercavo I’m so tired dei Fugazi, ho trovato Sleep rules everything around me, dei Wugazi, che sembra quasi integrare e amplificare il discorso, spostandolo su un livello meno esistenziale e intimo ma più duro, quasi epico, spietato, fortemente calato nella realtà urbana e razzista di una metropoli, New York, vista attraverso gli occhi di un nero. Il brano apre 13 Chambers, del 2011, primo e (ad oggi) unico disco dei Wugazi, al secolo Cecil Otter e Swiss Andy, ovvero i nuovi araldi di un genere nato una decina di anni fa e definito molto simpaticamente bastard pop.
Cos’è il bastard pop, di che si tratta? È un’operazione di mashup, molto vicina a certe contaminazioni dell’hip hop ma anche agli esperimenti di musica concreta della prima metà del 1900, in cui si fondono insieme alcune parti o frammenti di due (o più) brani musicali per ottenerne un terzo. Per un certo periodo è stato un genere abbastanza diffuso, tanto da meritarsi addirittura una trasmissione su MTV. Poi è un po’ finito nell’ombra, fino alla recente uscita di 13 Chambers, dichiarato omaggio alla musica dei Fugazi e del gruppo rap Wu Tang Clan di New York, dalla fusione dei cui nomi nasce la sigla Wugazi.
Tornando indietro, alle sue origini, il primo capolavoro assoluto del bastard pop, e quello che rimane ancora oggi il miglior esempio di quel genere è un album del 2004, il Grey Album di Danger Mouse, musicista e produttore statunitense fra i più noti, che fondeva insieme frammenti sonori e loop musicali del White Album dei Beatles con le parti vocali dell’assai più arrabbiato Black Album del rapper Jay-Z. Realizzato in clandestinità e diffuso illegalmente sul mercato, il Grey Album di Danger Mouse conquistò subito l’attenzione del pubblico, scatenando l’entusiasmo degli stessi Paul McCartney, Ringo Starr, e di Jay-Z, e al contempo le ire delle loro case discografiche, che fecero di tutto per censurarlo, senza mai riuscirci.
Da un certo punto di vista la cosa è affascinante, perché a ben vedere i Beatles, anche per merito del Grey Album, sono stati in assoluto il gruppo più saccheggiato dal genere bastard pop, e ci sono svariati dischi in cui il loro lavoro viene fuso con quello di altri gruppi, soprattutto nell’ambito del rap. A tal proposito McCartney, in una intervista del 2011, si disse “onorato” dalla cosa, rimarcando come i Beatles avessero spesso rubato alla musica nera degli anni ’60 e come vedesse in questo tipo di furto al contrario la perfetta chiusura del cerchio.
Tornando al disco dei Wugazi, io non ho nessuna prova a sostengo di questa mia affermazione, anzi, potremmo definirla la classica visione da fan, ma mi sono fatto l’idea che, in un certo senso, la loro scelta di utilizzare Sleep rules everything around me per aprire il loro disco, sia un omaggio trasversale al Grey Album, proprio attraverso il legame sotterraneo che c’è fra bastard pop, rap e Beatles. I Fugazi, come gruppo, sia per sonorità che per contenuti non hanno nulla da spartire coi Beatles, se non fosse che la lenta ballata di MacKaye, in effetti, non ha nulla a che fare coi Fugazi. È un pezzo che, oltre a discostarsi dal loro solito sound, ha per spirito e persino nel titolo un chiaro riferimento al brano omonimo dei Beatles, I’m so tired, contenuto proprio nel White Album, ed espressione di un momento molto particolare della vita di John Lennon, in ansia a tal punto da farsi venire delle crisi di insonnia: di lì a poco avrebbe annunciato al mondo la sua relazione con Yoko Ono, e poco dopo sarebbe venuta la fine della sua collaborazione coi Beatles.
Quelli di Lennon e MacKaye sono due brani molto simili nelle intenzioni come nell’atmosfera. Per riprendere la definizione usata dal critico Geen Lees per la musica di Bill Evans, possiamo definirli “lettere d’amore scritte al mondo da qualche prigione del cuore”. Magari quella di Lennon è più ironica e mossa, ma entrambe generano fantasmi. Va detto che quella sorta di viaggio in una terra indistinta fra sogno e veglia, alla ricerca del proprio io più nascosto, è in realtà uno dei motivi fondamentali della poetica di Lennon. Andando a ritroso attraverso pezzi come Strawberry Fields Forever o I’m only sleeping, si può arrivare al suo primo capolavoro autobiografico, Help!, che proprio del principio di quel viaggio parla, dalle porte appena spalancate del Sonno.
Ascoltando un demo del 1970, in cui cerca di riportare il brano al tempo originale in cui lo aveva composto (prima che esigenze commerciali lo rendessero più ammiccante, velocizzandolo) si ritrova nel suo grido scomposto, nel suo lento trascinarsi nel buio alla ricerca di una via d’uscita, la stessa ansia e paura del brano di MacKaye, nessuna differenza fra i due. Dimostrazione di come un lungo filo sottile possa stendersi, anche nella più completa diversità della voce, fra i cuori degli uomini soli.
Caro John, non essere duro con te stesso. Concediti una pausa. La vita non è stata pensata per essere una corsa. La gara è finita, hai vinto.
Cavolo trent’anni, non mi ricordavo che fosse passato tanto. La morte di John Lennon ha quasi la mia età. C’è da averne paura. Voglio dire che per certi versi è spaventoso pensare di avere tanta morte in comune con una persona o almeno, volendola quantificare, più morte che vita. C’è di buono che almeno, e non è cosa da poco, per tre anni io e John Lennon abbiamo condiviso la stessa aria strana di questo mondo, magari (anche se allora non ne ero cosciente) una notte ci siamo visti la stessa luna, e poi magari abbiamo condiviso gli stessi piccoli comuni desideri, il bisogno di un abbraccio caldo, o di un gelato al limon o di starcene così, stesi al sole pigramente. In fondo che ne sappiamo di cosa condividiamo con gli altri? John Lennon avrebbe detto, guardandoti con serietà dietro i suoi occhialetti da nonna, che siamo semplicemente uomini e gli uomini fanno quello che possono e i desideri del cuore sono cose elementari, e belli proprio per questo. Tre anni di vita contro trenta di morte. E ancora non ho smesso di scoprirlo. In vita ho comprato più o meno tutto di lui, i dischi e qualche libro. Ho visto i film. Sono passato attraverso le mie fasi più folli insieme a lui e di volta in volta c’è stato questo o quel periodo artistico della sua opera che ho preferito. Quand’ero ragazzino adoravo il Lennon psichedelico, poi è venuto quello pre-punk a cavallo fra la fine dei Beatles e i primi anni da solista. E il Lennon di Rubber Soul è ancora il mio preferito di sempre. Ogni tanto, da poco, vengono fuori i suoi ultimi demo che tracciano il profilo inedito di un uomo più maturo e pacato del simpatico guascone che tutti conoscono. Demo che ti fanno sempre un certo effetto, come sbirciare nel bagno di un altro, e chiedere che ne sarebbe stato di lui come autore, e come si sarebbe evoluta la sua musica se non fosse stato ucciso. Cercando di rispondere a questa domanda, negli ultimi giorni, come hanno già fatto in passato molti fan fissati, mi sono messo ad ascoltare i suoi figli, sperando di poter trovare in loro e nella loro somiglianza fisica con lui, una risposta. Julian, mi spiace dirlo, mi dà sempre l’idea del figlio un po’ sfigato, che non è mai riuscito a superare il trauma per il suo abbandono. Non è colpa sua, anche John, da uomo, ha sbagliato e sbagliato alla grande. Però proprio non si riesce ad ascoltarlo. Mentre Sean è bravo, proprio bravo, anche se mette sempre un po’ a disagio guardarlo, sembra un ibrido fra John e Yoko, davvero il figlio di un amore unico e senza confini. Ecco, l’altra sera guardavo un video di Sean e non ho trovato nessuna particolare risposta ma ero lì che lo ascoltavo e mi dicevo, beh cazzo, John è morto ma la vita va avanti, e la vita spesso è semplicemente un figlio che canta le sue canzoni, anche se sa chi sei stato e che inevitabilmente lo influenzi. Fa quello che fa con l’unico scopo di dire che c’è, anche grazie a te, ma soprattutto nonostante te.
Carne morta, non sai che sei carne morta? Ti sei appena messo con la squadra sbagliata. Meglio non cercare di addormentarsi adesso. Faresti meglio a correre fuori di qui. Io chiudo gli occhi e conto fino a dieci. Poi vengo a cercarti.
Questi sono tre pezzi che ho scritto all’incirca un anno fa (estate del 2009). Li avevo calcellati chiudendo il vecchio blog ma mi è stato chiesto da un amico di ripubblicarli, e visto che in questi giorni riesco a trovare pochissimo tempo per degli aggiornamenti, ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Have fun!
PENSIERI SPARSI SULL’ULTIMO JOHNNY CASH
Probabilmente vi rivelo un’ovvietà ma ci sono pezzi che funzionano meglio di notte. Scrivo questo all’incirca all’una e qualcosa mentre ascolto a basso volume, per non disturbare i vicini, Man comes around di Johnny Cash. Sono sul balcone ma Cash mi ricorda che non siamo che acrobati sulla corda, che sotto di noi brucia l’inferno e dentro di noi si agita la bestia. Non c’è niente da fare, non si può non credergli con quella voce. Ho scoperto Cash l’anno scorso, in Francia. Il mio amico Giovanni era rimasto colpito dalla sua versione di Personal Jesus e si era comprato il disco. Buona parte del successo del pezzo, mi disse, era opera di John Frusciante, che l’aveva rielaborata in chiave acustica, ma anche Cash faceva la sua parte. Poi di sera, in albergo, lo ascoltammo e ne rimanemmo invischiati. Dico invischiati perché, e chi lo ha ascoltato lo sa bene, la sua voce è come il petrolio, è calda e densa e se appena ci metti dentro un piede non riesci più a liberartene, ci affondi lentamente. Da allora mi sono fatto tutti gli ultimi dischi di Cash, quelli della serie American Recordings, ed è straordinario ad ascoltarli come quest’uomo riesca a trasformare anche i pezzi più moderni in opere senza tempo, scarnificandoli fino all’osso, riportandoli all’essenziale.
Qualcosa di simile aveva fatto Dylan coi due dischi acustici dei primi ’90. In quei dischi Dylan prendeva canzoni più vecchie di lui e, scavando nel loro cuore fino a riportarne alla luce l’essenza, le riportava vive ed attuali ai nostri giorni. La poetica dei due artisti è in fondo la stessa. Per me quella è la migliore musica degli anni ’90, insieme a poche altre cose. Peccato che l’abbia scoperta molto più tardi e non quand’ero ragazzo e innamorato di band più rumorose. Avrebbe di sicuro, mi dico, modificato il mio sguardo. Ma in fondo c’è un’età per ogni cosa e forse all’epoca non l’avrei apprezzata abbastanza, magari l’avrei addirittura snobbata come irrimediabilmente noiosa. Non c’è rabbia nella musica dell’ultimo Cash. Nessuna voglia di spaccare il mondo. A che servirebbe, ormai? Meglio lasciarsi cullare dalla notte.
Ci incontreremo ancora, promette Cash alla fine, e a ben vedere è questo il tema alla base degli American Recordings: il confronto spietato col Tempo, l’ansia di trovare finalmente la Salvezza. Cash riscrive la propria storia attraverso la scelta di brani che spesso non sono suoi ma sente come tali e che, appartenendo all’immaginario collettivo, fanno ormai parte del patrimonio popolare. La sua storia in questo modo diventa la storia di tutti, la sua voce (per quanto straordinaria) diventa la voce di chiunque. È, tutto sommato, un concetto molto americano. Ed ecco perché: american recordings. L’opera di Cash si apre all'America, quel mondo sterminato, fino a perderlo in essa. Liberandolo. Offrendogli finalmente Salvezza.
115° SOGNO DI PATTI SMITH
Ricordo come fosse stato appena ieri la prima volta che ho ascoltato Patti Smith. Mi ero comprato il disco dopo aver letto da qualche parte un articolo sulla sua vita, e come spesso mi succede mi ero innamorato di lei prima ancora di averla sentita. All’epoca, parlo della seconda metà dei ’90, l’unica maniera di ascoltarsi una cantante che ti interessava era farsi fare una cassetta da un amico più grande o beccare una qualche trasmissione sulla storia del rock in radio, ma già per quello ci voleva culo. Il più delle volte ritrasmettevano Because the night ma a parte il fatto che mi piaceva non è che mi dicesse molto della Smith. Io però m’ero innamorato e avevo deciso di scendere a patti col diavolo e investire i miei pochi risparmi in un CD. Del resto l’aveva detto anche Micheal Stipe, senza di lei la sua vita e la sua musica sarebbero state diverse, di sicuro peggiori, e senza i REM che mi accompagnavano sul primo treno del mattino per l’università anche la mia lo sarebbe di certo stata. E poi aveva o non aveva baciato Bob Dylan sul palco dopo un concerto? Insomma quella donna non poteva essere ignorata. Ero proprio innamorato.
Avevo vent’anni e comprai Horses, il suo primo disco, con tutta l’emozione del caso e ventimila lire. La copertina era bellissima e lei così cool! Opera del grande e perverso Robert Mapplethorpe, di cui avevo appena discusso durante l’esame di Storia della Fotografia. E poi c’erano John Cale alla produzione, e Lou Reed rannicchiato in un angolo nel collage del libretto. Insomma, ancora non lo avevo sentito e già mi sentivo a casa mia. Quello era un mondo che conoscevo bene. Ma la vera magia scoccò quando misi il disco nel lettore. Quando partirono pigre e avvolgenti le prime note al piano di Gloria e Patti pronunciò contro il Peccato i suoi versi più famosi (che non sto qui a ripetervi) cominciai a muovermi sulla sedia, non riuscivo a stare fermo, quando la sua voce si avvitava su se stessa mentre affermava che sentiva bussare alla sua porta provai quasi un brivido di piacere come se anch’io fossi lì ad aspettare ansimante dietro quella porta. Ma tutto il disco era fenomenale. Kimberly era dolcissima e in Free money si respiravano la notte e i suoi sogni. Ma il vero capolavoro per me rimaneva Land. Ogni volta che l’ascoltavo, per mesi da allora, non riuscivo a stare fermo, cominciavo a dimenarmi come un pazzo sulla sedia di fronte allo stereo, avevo le cuffie nelle orecchie e mio fratello più piccolo che alle mie spalle, senza capire, mi scimmiottava ridendo. Ma non m’importava. C’era violenza in quella musica e grazia. Era impossibile resistere. Per mesi chiunque passasse da casa mia doveva sentire Patti Smith. O sarebbe morto perdendosi per sempre qualcosa di grande. Non avete idea di quante persone ho convertito alla sua fede!
Poi nel tempo ho ascoltato più o meno tutto di lei, non molto in effetti. In particolare ricordo il giorno in cui comprai Easter, un album di cui mi ha sempre stupito l’ampiezza dello sguardo nell’affrontare il tema dell’amore, descritto in tutte le sue forme. Davanti al negozio di dischi mi fermò una signora un po’ tocca che afferratomi con foga il braccio mi dette la missione di diffondere al mondo la notizia che l’unica volta che era stata con un uomo lei era stata bene! Vai e dillo a tutti! Io sorrisi, le promisi che l’avrei fatto poi entrai a comprarmi Easter, chiedendomi se anche la Smith avesse avuto quel fuoco dentro quando alla fine dei ’70 decise di lasciare la musica per dedicarsi alla famiglia. Personalmente trovo ancora straordinario che qualcuno che avesse vissuto quell’avventura eccezionale all’apice del successo decidesse così, di punto in bianco, di mollare tutto per dedicarsi a casa marito e figli. Mi dava l’idea di una persona che fosse realmente libera, ci vuole del fegato per rinunciare al successo. La cosa buffa fu scoprire, pochi mesi dopo l’essermi avvicinato a lei con tutta la fascinazione che si prova davanti a un mistero, che la Smith era da poco tornata a fare musica. Con molta discrezione, certo, ma lei era di nuovo con noi.
L’anno passato è uscito il suo ultimo disco, una raccolta di cover. Il singolo trainante è una sua personalissima versione di Smells like teen spirit dei Nirvana. Non piace a tutti e capisco perché. Cantata da lei quel pezzo assume tutto un altro significato e non so se Kurt Cobain l’avesse mai contemplato. Non è più la canzone di un ragazzo frustrato perché non sente di avere un posto nel mondo. È il pezzo di chi è sopravvissuto proprio a un mondo a cui, nonostante tutte le sue contraddizioni, oggi appartiene. Forse, se Cobain fosse invecchiato abbastanza l’avrebbe sentita e cantata anche lui a quel modo. Chissà?
La Smith ha sempre detto di essere prima di tutto una poetessa. Ora, per uno strano caso del destino, un caso poetico di quelli che se li leggi nei libri o vedi nei film ti dici “bello sì ma inverosimile”, Patti Smith che per tutta la vita ho inseguito attraverso i suoi dischi, i suoi bellissimi ritratti fotografici e i fugaci articoli di giornale che leggevo con devozione ogni qual volta mi capitavano per le mani, si ritroverà a passare di qui fra quindici giorni, proprio il 4 luglio, per cantare a cinque minuti da casa mia, in un paesino di sogno frequentato per lo più da giapponesi affamati di souvenir chiamato Alberobello. Quando l’ho saputo sono quasi caduto dalla sedia, proprio come quando ero ragazzo e mi dimenavo ascoltando Land. Per me è qualcosa di più di un fan che vede per la prima volta uno dei suoi artisti preferiti. No, qui è questione di riuscire finalmente a toccare il tempo con mano, e la grazia. Averla lì davanti agli occhi, sentirla cantare e credere che ti guardi dritto in faccia, proprio te, e che finalmente il mondo con un po’ di giustizia abbia riannodato i fili di alcune delle sue molte storie appositamente perché un giorno tu possa raccontarlo.
IL WEEKEND PERDUTO
Tutto comincia nell’autunno del 1973. John Lennon viene mollato da Yoko Ono per un altro.
Distrutto dalla separazione, sfinito da una campagna denigratoria orchestrata dal governo degli Stati Uniti, che lo definisce un comunista per espellerlo dal paese, Lennon si trasferisce a Hollywood e comincia a bere per dimenticare, abbandonandosi ai gesti più idioti e violenti e autodistruttivi, e lasciandosi dietro una scia di disfacimento e di disastri tali da rovinarsi quasi la carriera. John in quell’autunno del 1973, come lui stesso ammetterà poi, impazzisce, diviene completamente folle di gelosia e d’amore. In seguito chiamerà quel lungo periodo di confusione e furia weekend perduto. Il weekend in realtà dura diciotto mesi, finché, come in una fiaba, alla fine del 1974 Yoko Ono pentita torna per salvarlo col suo bacio stregato. Nel frattempo Lennon scende all’inferno, saggia i confini del suo dolore e ne fa arte. Fondamentale in questo è il sodalizio con Phil Spector, produttore geniale che, intenzionato a produrre un disco di cover di vecchi successi dei primi ’60, lo coinvolge in una collaborazione. Per una volta Lennon sarà interprete e non necessariamente autore delle canzoni. Lennon, spossato dalla separazione, senza nessuna voglia di comporre, prontamente accetta l’offerta e i due si mettono al lavoro.
Purtroppo per Lennon, Spector è ancora più folle di lui. I suoi metodi di lavoro, per quanto portino a risultati straordinari, sono alquanto bizzarri e soprattutto lunghissimi: ore e ore ogni giorno vanno perdute per registrare una traccia su cui poi, a notte fonda, Lennon (che nell’attesa beve fino a ubriacarsi) dovrà registrare la sua parte vocale. In più di un’occasione i due finiscono per fare a botte. Una volta vengono addirittura cacciati via dallo studio di registrazione. Un’altra volta Spector, che gira armato, spara a Lennon, mancandolo. Lennon, del tutto ciucco, gli risponde: “Phil cazzo, sparami dove vuoi, ma non vicino alle orecchie! Mi servono per cantare!” (Per la cronaca Spector, che ha il vizietto, alcuni anni dopo proverà a sparare anche a Leonard Cohen). Alla fine il progetto viene abbandonato perché Spector scompare dopo aver causato un brutto incidente stradale e Lennon, in parte riappacificato con la propria musa, si mette al lavoro su delle nuove canzoni, quelle che poi finiranno in Walls and Bridges (1974).
Nel 1975 lui e Yoko Ono tornano insieme e John decide di rinunciare alla musica per dedicarsi alla famiglia. Il resto è storia. Di quel weekend con Spector ci restano una manciata di tracce, che verranno alla luce solo dopo la morte di John. Alcune sono completamente scomposte, come in Just Because, in cui Lennon comincia per cantare e finisce per fare profferte sessuali a una delle coriste: “voglio succhiarti i capezzoli, baby!” Altre, come Here we go again, sono dei veri e propri capolavori. La mia preferita rimane però Be my baby, un famosissimo brano delle Ronettes che in quella maniera così dolce e innocente tipica dei primi anni ’60, allude a una classica storia d’amore adolescenziale. Nella versione di Lennon, talmente ubriaco da essere privo di qualsiasi filtro davanti al microfono, questa canzone per ragazzi diventa una cosa seria, da grandi, il grido disperato di un uomo sconfitto dalla vita che chiede solo di poter tornare a casa. Soprattutto nel finale, così angosciato che poi verrà sfumato in fase di mixaggio, la sua voce si carica di una tale tensione drammatica da metterti i brividi addosso. Appare ovvio che quando canta “sii mia” non lo fa per un’ipotetica ragazza o per il suo pubblico. Canta esclusivamente per Yoko, dall’inferno in cui è sceso, pazzo d’amore e gelosia.
I’m losing you è una canzone strana. Come tematica e livello di incazzatura sembra più vicina alla produzione di Lennon dei primi anni ’70, quello a cavallo fra fase punk e la moglie che lo lascia. Però sta sul suo ultimo disco, accreditato alla pari fra lui e Yoko ritornata a casa. Anche la versione che vi metto qui sotto ha una sua storia tutta particolare. Di gran lunga superiore a quella poi inserita nell’album Double Fantasy (quello di Woman, per intenderci), è stata realizzata coi Cheap Trick, gruppo coi controcazzi che venne inizialmente chiamato per registrare con Lennon e poi inspiegabilmente licenziato dopo una sola seduta. Il perché non si sa, visti i risultati. Qualcuno insinua che al solito ci si è messa di mezzo Yoko (definita da Rick Nielsen, leader del gruppo, “una fottuta strega”). Qualcun altro invece sostiene che fu una scelta di produzione, perché si intendeva puntare su un suono più dolce, pop, e lo stesso Nielsen ammette che non sempre il sound della band riusciva ad amalgamarsi con tutte le sfumature del cantato di John. Fatto sta che per noi lennoniani la sua pubblicazione, a vent’anni di distanza, è stata manna dal cielo, la riprova che, al di là di quello che andavano dicendo i suoi detrattori per via delle sue ultime cose, e cioè che Lennon come artista rock era finito, la scintilla del genio bruciava ancora violenta sotto la cenere e talvolta, se stimolata a dovere, veniva fuori senza compromessi. E poi il video è fighissimo.
Canzone in risposta a quella pubblicata sul blog di Sergio Garufi.
A quanto raccontano Nobody loves you when you’re down and out, di John Lennon, venne scritta in origine pensando a Frank Sinatra che però, non se ne conoscono i motivi, ascoltato il nastro declinò l’offerta. Chissà, forse la sentiva troppo personale. Già dal primo ascolto, infatti, la si può ritenere la cosa più amara del catalogo di Lennon. Composta alla fine del 1973, durante il weekend perduto (di cui si è già parlato), venne poi pubblicata con un accompagnamento di fiati alla Phil Spector per chiudere Walls and Bridges, 1974, ultimo album di canzoni originali a firma del solo John, qui, per la prima è unica volta, solo per davvero, senza i Beatles e senza Yoko Ono ma con in mano una bottiglia. Si sente.
NESSUNO TI AMA (QUANDO SEI TRISTE E STANCO)
Nessuno ti ama quando sei triste e stanco Nessuno ti vede quando sei al settimo cielo Ognuno si sbatte per i suoi quattro soldi Grattèrò la tua schiena e tu gratterai la mia Sono stato dall’altra parte del muro Ti ho mostrato ogni cosa, non ho niente da nascondere Eppure mi chiedi ancora se ti amo Cosa significa? Cosa significa? Tutto quel che posso dirti è È solo show business Tutto quel che posso dirti è È solo show business Nessuno ti ama quando sei triste e stanco Nessuno ti conosce quando sei al settimo cielo Ognuno si sbatte per i suoi quattro soldi Gratterò la tua schiena e tu pugnalerai la mia Ho attraversato i mari così tante volte Ho visto lo stregone con un occhio solo guidare il cieco Eppure mi chiedi ancora se ti amo Cosa dici? Cosa dici? Ogni volta che cerco di affrontare la cosa Mi sfugge di mano Ogni volta che cerco di affrontare la cosa Mi sfugge di mano Mi alzo la mattina e guardo nello specchio per vedermi Poi mi stendo nel buio e so che non riuscirò a dormire Nessuno ti ama quando sei vecchio e grigio Nessuno chiede di te quando sei sottosopra Ognuno è felice per il suo compleanno Tutti ti amano quando sei sottoterra
Era tanto che volevo pubblicare questa canzone ma non l’ho mai fatto prima perché qualcosa mi bloccava. Forse dice così tanto di me che, inconsciamente, mi pareva di mettere in piazza i fatti miei e restare lì nudo come un verme. Poi magari mi sbaglio e nessuno può capire i veri motivi del perché la sento così mia anche se, dato il tema, non è poi difficile. È di John Lennon e già questo basterebbe. È una canzone scritta nel weekend perduto, il periodo di lui che preferisco e anche questo aggiunge punti. Ed è di per sé un gran pezzo, che supera in parte le convenzioni del pop per arrivare a ben più raffinate soluzioni musicali. Ma soprattutto, credo, è il dono degli artisti. Di chi, creando, riesce sempre a dare vita a un’opera che parla insieme per lui e per tutti, un’opera aperta al mondo insomma, e in cui puoi rifugiarti se hai bisogno. Un riparo dalla tempesta. Poi, come già si diceva tempo fa, l’arte non può cambiare il mondo. Si può solo caparbiamente andare avanti, un passo per volta, come dice mio nonno. Fare esperienza. Diventare un po’ più duri. E ascoltare della buona musica se è il caso.
TI BENEDICO (1974, da Walls & Bridges)
Ti benedico, dovunque tu sia bambina portata dal vento su una stella cadente gli spiriti irrequieti si separano ma sono ancora profondamente legati
Qualcuno dice che è tutto finito adesso che spieghiamo le nostre ali ma noi lo sappiamo bene, cara l’anello vuoto è solo l’eco dell’anno passato
Ti benedico, chiunque tu sia che adesso la stringi, sii caldo e gentile e ricorda che se anche l’amore è strano il nostro amore rimarrà per sempre