Una delle esperienze più umilianti che ho avuto come editore mi è successa circa due anni fa – se la memoria non inganna – quando scoppiò quel mezzo scandalo sul Premio Strega che, date le quantità di libri gratuiti richiesti agli editori per l’iscrizione, era democratico di nome ma di fatto escludeva tutti i pesciolini come me. Mi contattò allora la giornalista di una testata nazionale, me come altri micro editori, per farmi le sue domande su cosa ne pensassi del premio. Io risposi alle sue domande con tutto il garbo possibile, le passai anche dei nomi di altri possibili intervistabili poi, quando venne fuori il fatto che fossi prevalentemente un editore di poesia – cosa di cui la giornalista non si era informata – venni con poche imbarazzate ma rapide scuse liquidato, e la mia intervista cancellata, perché il premio Strega è notoriamente un premio indirizzato alla narrativa e non mi riguardava. Fu come sentirsi ghettizzato due volte, primo perché piccolo e secondo perché votato alla pubblicazione di un genere sfigato come la poesia, dove persino chi prendeva posizione polemica contro le regole del premio, come appunto la giornalista, alla fine mi faceva fuori in nome del senso comune che vuole la poesia genere a parte – e la mia opinione ininfluente perché non interessata dal premio. Né però avevo le armi per darle torto, perché di fatto quando mai la poesia ha vinto allo Strega? Così salutai e incassai lo scorno.
Fino a stamattina, quando mi è capitato fra le mani, dono dell’inestimabile Eva Hide, uno smilzo volumetto di dodici prose poetiche, ordinate come le stazioni della Via Crucis in una sorta di poemetto intitolato Nottetempo, casa per casa, scritto da Vincenzo Consolo e vincitore dello Strega nel 1992. Ecco che, per quello che sembra essere diventato il premio nell’immaginario comune, sembra quasi un miracolo. Il miracolo della poesia che vince, per quanto rivolto al passato. Il libro comincia così:
“E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva – ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai parenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza”.
E va avanti per circa 140 pagine in questa lingua che è poesia fino alla chiusa, bellissima e consolatoria:
“E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva – ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai parenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza”.
E va avanti per circa 140 pagine in questa lingua che è poesia fino alla chiusa, bellissima e consolatoria:
“Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”.
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