Un uomo, un pubblicitario di successo abbandonato senza motivo dalla compagna e sofferente per alcuni problemi all’udito decide, di punto in bianco, di mollare il lavoro e la città e di trasferirsi nella sua vecchia casa in campagna, col padre con cui ha un rapporto di amore-odio. Viene qui minacciato da un uomo con cui aveva antichi rancori e quando questi viene misteriosamente ucciso, senza una logica apparente – essendo egli sospettato del delitto, ma non l’assassino – rifiuta di parlare con la polizia e si nasconde in un capanno poco distante dalla casa. Qui viene prima scovato da un poliziotto che però solidarizza con lui, poi incontra Dostoevskij redivivo che gli racconta com’è la vita nel regno degli oltrepassati. In questo suo rifugio lo raggiunge la notizia della morte di suo padre. Decide quindi di tornare a vivere da solo nella casa dove, per darsi ragione della sua stessa esistenza, comincia a stendere un lungo elenco di oggetti che lo circondano, poi a rievocare le immagini dei suoi morti, non riuscendo più a distinguere alla fine fra ricordi e fantasmi che ora occupano l’intera casa insieme a lui. Pubblicato nel 1970, vincitore dello Strega, Le stelle fredde di Guido Piovene, giornalista, è uno degli ultimi suoi libri, scritto quando Piovene era già venuto a conoscenza della malattia che di lì a poco lo avrebbe ucciso. Il linguaggio utilizzato è secco e duro, incisivo, senza fronzoli, esclude volontariamente qualsiasi possibilità di coinvolgimento emotivo da parte del lettore, che resta come stordito, meglio ancora raggelato dallo scorrere senza ragione dei fatti riportati. In tale nitore formale però, l’autore raggiunge a tratti una meditata eleganza poetica, soprattutto nelle ultime pagine che non offrono alcuna speranza, soltanto nuove dichiarate illusioni. È questo, in tutto e per tutto, un romanzo sulla fine della vita. Nota a margine: questo è il terzo libro scritto negli anni ’60 che leggo, in cui il protagonista è un pubblicitario scoppiato. Evidentemente all’epoca i pubblicitari non erano considerati persone frequentabili.
Poesie, pensieri e fotografie di Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, in arte Antonio Lillo ovvero Antonio Hammett
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lunedì 23 ottobre 2017
lunedì 7 luglio 2014
cosa toccano gli occhi
Il mondo morirà
quando io non vedrò più.
Cosa toccano i miei occhi
lo porto con me.
Questo cielo
che potrebbe spezzarsi
sotto il peso delle Stelle.
(Ruxandra Niculescu)
quando io non vedrò più.
Cosa toccano i miei occhi
lo porto con me.
Questo cielo
che potrebbe spezzarsi
sotto il peso delle Stelle.
(Ruxandra Niculescu)
sabato 19 aprile 2014
volevo morderti mia stella
portarmi sulla lingua il tuo sapore che prude
il filo della tua schiena che scorre perfetto fra le labbra
dalla bocca al centro esatto della mia voce.
Volevo mia bella ferirmi sulla tua carne
e perdermi nel sangue dei nostri baci fluidi e densi
sentirmi innocente e fragile fra le tue braccia
nei tuoi singhiozzi di donna che forzano in luce
i segreti del cuore. Volevo morderti così
senza pudore, ardente e feroce, poi dolce ritrovarmi
ferito, in te guarito. Volevo mai più scordarmi
del tuo fiato, del tuo sapore di gatta
che mi fa un giorno più vivo, nascosto nella pelle
nell’incavo delle tue ascelle.
il filo della tua schiena che scorre perfetto fra le labbra
dalla bocca al centro esatto della mia voce.
Volevo mia bella ferirmi sulla tua carne
e perdermi nel sangue dei nostri baci fluidi e densi
sentirmi innocente e fragile fra le tue braccia
nei tuoi singhiozzi di donna che forzano in luce
i segreti del cuore. Volevo morderti così
senza pudore, ardente e feroce, poi dolce ritrovarmi
ferito, in te guarito. Volevo mai più scordarmi
del tuo fiato, del tuo sapore di gatta
che mi fa un giorno più vivo, nascosto nella pelle
nell’incavo delle tue ascelle.
giovedì 26 dicembre 2013
tigri
per Erik Lemke (1979-2012)
1.
Un colibrì vola dentro una finestra
che assomiglia al cielo. Tutto qui attorno
assomiglia al cielo. Il cielo sembra una tigre striata.
Chiamano questo tipo di nube
qualcosa. Conosco qualcuno
che sa delle nuvole. Posso
scoprirne il nome. Tutto qui attorno
ha un nome.
2.
Il colibrì cadde sulla veranda. Mio marito lo raccolse.
– Cosa si sente ad averlo in mano?
– Niente. Non ho sentito niente.
– Dov’è ora?
– Andato.
– Morto?
– Non morto. Volato via. È scomparso ed è scomparso ancora.
3.
Ti dirò una sciocchezza. Un colibrì volò dentro una finestra...
Ti dirò un’altra sciocchezza. Tradimento,
una volta eravamo amici.
4.
Nei sogni l’uccello
pesa di più, così puoi sentirlo
quando lo raccogli. Così
quando muore sembra
qualcosa di realmente accaduto.
È una parola
legata
attorno alla tua mano e un segnale
sulla strada spogliata.
Una stella di poliestere su una stecca di plastica
legata al segnale.
Asfalto. Palo. Le grinze tese
di una stella grassa.
Piena.
Risplende.
Ci sarà una festa
qui attorno da qualche parte.
L’uccello non pesa niente aspetta da nessuna parte.
Il cielo assomiglia a una finestra e lui ci vola dentro.
(Melissa Ginsburg)
martedì 24 settembre 2013
giovedì 4 luglio 2013
non è colpa dei vecchi se se ne stanno al sole sui muretti...
Non è colpa dei vecchi se se ne stanno al sole sui muretti
a decidere per noi, pontificare o ancora meglio negli uffici
a sciogliersi in scorregge sulle loro sedie nuove di pelle
come ghiaccioli, gli sguardi buoni da bravi nonni
sempre pronti a giudicare la troia che passa senza danno
pieni di rancore per una giovinezza perduta a far denaro, per il mondo
che più non li comprende, non è colpa dei vecchi
è colpa nostra, che più non siamo buoni a scalciare scalciarli
fuori dalle palle come muli, in fondo al culo, castrali in via definitiva
che non si riproducano in ufficiali provinciali in divisa
ubriachi di potere rasoterra, banchieri frustrati nel sesso
e medici in vacanza, padri senza pensiero per i figli
farli schizzare fino alle stelle con un grosso calcio
nelle labbra per zittirli, riportarli al sangue di Gesù bommino
che non ci rende fratelli ma vittime allo stesso livello
e perderli nel buio, nello spazio profondo dei loro squallidi
universi mentali, con il coltello finalmente dalla parte del manico.
a decidere per noi, pontificare o ancora meglio negli uffici
a sciogliersi in scorregge sulle loro sedie nuove di pelle
come ghiaccioli, gli sguardi buoni da bravi nonni
sempre pronti a giudicare la troia che passa senza danno
pieni di rancore per una giovinezza perduta a far denaro, per il mondo
che più non li comprende, non è colpa dei vecchi
è colpa nostra, che più non siamo buoni a scalciare scalciarli
fuori dalle palle come muli, in fondo al culo, castrali in via definitiva
che non si riproducano in ufficiali provinciali in divisa
ubriachi di potere rasoterra, banchieri frustrati nel sesso
e medici in vacanza, padri senza pensiero per i figli
farli schizzare fino alle stelle con un grosso calcio
nelle labbra per zittirli, riportarli al sangue di Gesù bommino
che non ci rende fratelli ma vittime allo stesso livello
e perderli nel buio, nello spazio profondo dei loro squallidi
universi mentali, con il coltello finalmente dalla parte del manico.
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