domenica 31 dicembre 2017

messaggio di fine anno alla nazione dal poeta lillo

Gli ultimi giorni, per me, sono stati caratterizzati da due libri e da un film che mi sembrano chiudere l’anno con un messaggio ben preciso che voglio condividere. I due libri sono I detective selvaggi di Roberto Bolaño e Il fucile da caccia di Yasushi Inoue. Il film è il reportage Castelporziano. Ostia della poesia di Andrea Andermann. Tutti e tre parlano di poeti e di poesia, di cosa sono e di cosa vorremmo che fossero. In particolare il festival di Castelporziano del 1979, di cui ha scritto Guido Mazzoni su Le parole e le cose segna un momento cruciale della nostra letteratura, quello in cui la poesia, per le masse, smette di essere linguaggio più o meno accessibile e diventa prodotto. C’è un momento terribile del film, che già di per sé mette grande tristezza e imbarazzo, in cui, dopo che per circa un’ora ci si interroga su cosa sia la poesia in uno scontro all’ultima battuta fra pubblico e scrittori, senza riuscire a dare una sola risposta che paia credibile, quelli della tendopoli protestano di sentirsi incazzati perché nessuno dei poeti invitati al festival – gente come la Rosselli, Bellezza, Viviani, Conte, Cavallo, Zeichen ecc. – è riuscito a incarnare ciò che per loro “è” la poesia: in altre parole la poesia non è riuscita a soddisfare l’idea che se ne erano fatti, rifiutando di lasciarsi circoscrivere a mera rappresentazione di se stessa. Che è, sempre, tutto ciò che fa e dovrebbe fare l’arte, anche a costo di sfidare apertamente il proprio pubblico. Sui Detective Selvaggi non mi addentro, sarebbe inutile, ma mi entusiasma che i protagonisti indiscussi del romanzo siano poeti. Lo dico soprattutto per i tantissimi lettori che lo adorano ma non leggono un solo verso di poesia, e tolti i classici – i vari Octavio Paz che Bolaño odiava – non saprebbero da dove cominciare a definire il mondo in cui si immergono. Eppur si muove, è fatto di poesia e in esso trovano respiro. Ancora un poeta è il motore scatenante del libro di Inoue: la sua decisione di pubblicare una poesia ispirata da un fucile muove alla confessione dei propri oscuri sentimenti un traditore infelice, il quale fino a quel momento non immaginava cosa potessero scatenargli dei versi ben indirizzati al bersaglio: ciò che per convenzione chiamiamo “cuore”, ma che va ben oltre, alla radice del nostro sentire noi stessi, il paesaggio in cui siamo e l’enorme rete di rapporti che ci definisce come individui. Ecco, quel che mi auguro per l’anno che verrà, per me e per tutti, è di mettere da parte dubbi e preconcetti, di non ragionare troppo a mente fredda, chiedendoci cosa sia o non sia la poesia e se può esserci utile, se siamo o non siamo adatti a prenderla, se siamo alla sua altezza oppure no, ma di lasciarci andare, penetrare, acuendo i nostri sensi all’infinto. Non neghiamoci la possibilità di una nuova rivelazione per il solo fatto che pensiamo di essere altro o di meritarci altro che una manciata di versi – e quante volte ci siamo detti: “pensavo di essere diverso da quello che poi mi sono rivelato”? – ma siamo e basta, animali istintivi, mostriamo il petto nudo pronti a quel colpo di fucile che si spingerà dentro la carne, nel sangue, fino al nostro centro, fino a esplodere in ogni nostro atomo. E godiamoci il momento in cui, feriti, ci sentiremo vivi, liberi, fragili e innocenti. Tutto ciò non potrà che renderci migliori.

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