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martedì 10 settembre 2024

la danza della morte

Uno dei momenti più alti del cinema tedesco sotto il nazismo, la danza della morte all'interno dei film Paracelsus (1943) di G.W. Pabts. Subito dopo la guerra la pellicola venne bollata come puro film di propaganda e rinnegata dal suo autore. Ma quando all’interno della città di Basilea assediata dalla peste si scatena improvvisa e tremenda la danza orgiastica del giullare interpretato da Harald Kreutzberg – uno dei più sconvolgenti e innovativi coreografi del 900 – che contagia tutti coi suoi movimenti disarticolati e prefigura la comparsa della stessa morte, è impossibile non farsi prendere da un brivido pensando a come presto un’identica danza collettiva avrebbe trascinato l’intera Germania appestata verso il baratro. Nel film, e qui sì entrano in gioco il mito e la propaganda, Paracelsus riesce a scacciarla. Nella realtà, il demiurgo Hitler le verrà a sua volta sottomesso – e la sua fine verrà poi rappresentata in quell’altro capolavoro del regista che è Der letzte Akt (L’ultimo atto) del 1955.

martedì 16 gennaio 2024

la caduta

Difficilmente credo di possa trovare un universo più inquietante di quello del cinema di Georg W. Pabst, tutto incentrato sui bassifondi con questa criminalità vivace, feroce, affamata e sensuale, ossessionata dal denaro e piena di facce di criminali che in parte sembrano prese dai quadri di Grosz (che amava), in parte preannunciano quelle dei futuri nazisti al potere. Ne “L’opera da tre soldi”, che è un film dei primi anni ‘30 ispirato a un’opera teatrale di Brecht (il quale detestava il film perché trasformava, appunto, un’opera di Brecht in un’opera di Pabst), si osserva nel finale questa manica di tagliagole che confluisce in una Banca, capisce cioè che l’unica strada per loro per conservare e accrescere il loro potere è quello di istituzionalizzarsi ed entrare nel sistema economico sfruttando le masse dei poveri. Era un messaggio forte. Non a caso Pabst era considerato all’epoca non solo uno dei talenti del cinema tedesco, ma una delle voci più influenti della Sinistra. E anche per questo è crudele e ironico che lo stesso Pabst sia stato distrutto dal sistema economico che avversava. Quando fuggì dalla Germania nazista ed emigrò in America non riuscì, come altri registi, ad adattarsi al nuovo sistema cinematografico americano che razionalizzava i costi di produzione dei film (per i quali non si era interessati a raffinatezze artistiche che avrebbero rallentato i tempi di ripresa) e pretendeva il controllo assoluto sul prodotto finito, montaggio compreso. Al punto che, per orgoglio artistico, Pabst prima tornò in Europa, girovagando di paese in paese alla ricerca di un lavoro e poi, ridotto alla fame, accettò l’invito di Goebbels di tornare in Germania, dove girò un paio di film di propaganda. Fu la sua fine. La Sinistra, anch’essa rifugiata all’estero, lo ripudiò come traditore e venduto. Lui stesso cadde in depressione e passò il resto della vita a scusarsi per la propria debolezza, riducendosi negli ultimi anni a fare film sempre meno apprezzati. Non venne perdonato e dopo la sua morte sul suo nome cadde come un velo che ne offuscò i meriti. Ancora oggi, lo si ricorda soprattutto per i due film con Louise Brooks, spostando tutta l’attenzione su di lei e dimenticandosi come fu Pabst a trasformare Lulù in una star e non viceversa. Mentre andrebbe ricordato per una decina di film fondamentali realizzati prima della guerra e, subito dopo quella, almeno per “L’ultimo atto”, film bellissimo del 1955 che descrive le ultime ore di vita di Hitler (interpretato da Albin Skoda) chiuso nel suo bunker in attesa della fine, e ha ispirato alcuni rifacimenti assai più citati dell'originale, come ad esempio “La caduta” del 2004.


 

domenica 14 gennaio 2024

kameradschaft

Kameradschaft, traducibile in italiano come “Cameratismo” e per questo esportato all’estero con un meno compromesso “La tragedia della miniera” è il terzo film sonoro di G. W. Pabst, girato nel 1931, ma fa il paio col primo, Westfront 1918, dell’anno prima. Il film prende spunto da un fatto di cronaca del 1906, quando ci fu il crollo in una miniera al confine fra Francia e Germania, e una squadra di operai tedeschi passò il confine intervenendo volontariamente in soccorso dei francesi intrappolati. Pabst sposta l’episodio poco dopo la fine del primo conflitto, quando i rancori e le diffidenze fra i due popoli non sono ancora sopiti. La miniera crolla, i tedeschi intervengono, ma a un certo punto uno dei francesi intrappolati, in preda al delirio, confonde l’operaio tedesco in maschera sceso a salvarlo con uno dei tanti soldati nemici contro cui ha combattuto pochi anni prima e all’improvviso alcune scene di battaglia del film precedente vengono innestate in questo con un ritmo accelerato. L’effetto è devastante e splendido insieme perché mostra come non ci sia nessuna differenza fra soldati e operai, “siamo soltanto carne da macello” dice uno di loro a un certo punto. Come il precedente anche questo rifiuta qualsiasi colonna sonora preferendo esclusivamente i rumori d’ambiente delle macchine che scavano nelle gallerie e il taglio oggettivo delle riprese che confonde fiction e documentario.

giovedì 11 gennaio 2024

westfront 1918

Westfront 1918 di G. W. Pabst, è stato primo film sonoro girato, nel 1930, dal regista. Quando si dice sonoro si intende che l’80% del sonoro – mancando una colonna sonora – sono rumori “naturali” di un campo di battaglia, esplosioni, spari e grida, al punto da avere un effetto stordente sullo spettatore. È uno dei più bei film sulla, o meglio, contro la guerra che ho mai visto. Il primo paragone che mi viene in mente è Kubrick che probabilmente ha preso alcune cose da qui per il suo Orizzonti di gloria, a cominciare dal fatto che quasi tutto il film è ambientato in trincea, in mezzo al fango, in un bianco e nero sporco e con una fotografia piena di grana che già da sola varrebbe la visione dell’opera. Nulla è spiegato, tranne la brutalità della guerra che sommerge ogni cosa e la uccide, né c’è un protagonista del film perché tutti i soldati sono destinati a morire, impazzire e venire sconfitti, e anche per questo l’opera venne censurata con l’avvento in Germania di Hitler.

giovedì 4 gennaio 2024

il tesoro

Maestro, sapevi che di notte c’è un fantasma che si aggira per causa tua? – Il tesoro, del 1923, è primo film di Georg Pabst, che Lotte Eisner definiva opera piena di belle immagini ma non ancora caratterizzato dal tocco del regista. In realtà se c’è una costante, in questa sorta di favola gotica, coi film a seguire di Pabst, è nel denaro inteso come motore del mondo e centro di ogni passione. Il film parla di questo: gli operai che stanno ristrutturando un antico palazzo distrutto dagli ottomani, vengono a sapere dal mastro campanaro Svetocar di un antico tesoro nascosto nei muri dell’edificio, così di notte si mettono alla sua ricerca, chi sfruttando l’ingegno (l’orafo Arno) e chi la magia (l’operaio Svetelenz). C’è una scena fra le più suggestive – chiaramente in debito verso il Gabinetto del Dr. Caligari di tre anni prima – in cui Svetelenz, completamente soggiogato dal suo sogno di ricchezza, si aggira come un sonnambulo guidato da una bacchetta da rabdomante fra i corridoi sempre più contorti del palazzo, quasi perduto nei meandri della propria mente. – Le pietre tacciono, dice Svetelenz ad Arno quando questi lo risveglia dalla trance. – Cosa vorresti dire alle pietre?Cosa è sepolto dentro di voi? – Anche la connotazione dei personaggi è parecchio rivelatrice. Arno, il protagonista, è un ragazzo di bellezza e intelligenza eccezionali, ma è tutt’altro che un eroe positivo: privo di pietà, si diverte a deridere gli altri meno brillanti di lui; è inoltre un seduttore impenitente, al punto che riesce a portarsi a letto sia la cameriera della locanda sia la figlia del suo datore di lavoro con cui poi scapperà in città: in tal senso il film, pur non mostrando scene di sesso, è piuttosto esplicito nel raccontare come tutto il fatto romantico sia declassato a istinto sessuale, perché, come si diceva, il vero motore passionale del film è nel denaro e nella sfida messa in atto per ottenerlo, non nell’amore. Infatti, è solo quando rischia di perdere la sua parte di tesoro che Arno si lascia prendere dall’emozione, mette da parte ogni razionalità e sfoderando il coltello mostra anche lui, come gli altri, il suo lato più aggressivo. Anche Svetocar e sua moglie non sono da meno: guidati dall’avidità, accettano senza ripensamenti di cedere in matrimonio la loro stessa figlia a Svetelenz in cambio della sua parte di tesoro. Tale comportamento viene additato come riprovevole e incivile, ma per questo vengono attribuite a Svetocar fattezze somatiche che, pur non dicendolo esplicitamente, ne dichiarano l’origine semita. Perché solo un ebreo, secondo i pregiudizi dell’epoca, avrebbe potuto vendere la propria figlia per denaro, e questo per un tedesco di allora – in una società dove i matrimoni di interesse erano invece all’ordine del giorno – era sia un mascheramento che un insulto.