Maestro,
sapevi che di notte c’è un fantasma che si aggira per causa tua? –
Il tesoro,
del 1923, è primo film di
Georg Pabst, che Lotte Eisner definiva opera piena di
belle immagini ma non ancora caratterizzato dal tocco del regista. In realtà se
c’è una costante, in questa sorta di favola gotica, coi film a seguire di
Pabst, è nel denaro inteso come motore del mondo e centro di ogni passione. Il
film parla di questo: gli operai che stanno ristrutturando un antico palazzo
distrutto dagli ottomani, vengono a sapere dal mastro campanaro Svetocar di un
antico tesoro nascosto nei muri dell’edificio, così di notte si mettono alla
sua ricerca, chi sfruttando l’ingegno (l’orafo Arno) e chi la magia (l’operaio
Svetelenz). C’è una scena fra le più suggestive – chiaramente in debito verso
il Gabinetto del Dr. Caligari di tre anni prima – in cui Svetelenz,
completamente soggiogato dal suo sogno di ricchezza, si aggira come un
sonnambulo guidato da una bacchetta da rabdomante fra i corridoi sempre più
contorti del palazzo, quasi perduto nei meandri della propria mente. –
Le
pietre tacciono, dice Svetelenz ad Arno quando questi lo risveglia dalla
trance. –
Cosa vorresti dire alle pietre? –
Cosa è sepolto dentro di voi? –
Anche la connotazione dei personaggi è parecchio rivelatrice. Arno, il
protagonista, è un ragazzo di bellezza e intelligenza eccezionali, ma è
tutt’altro che un eroe positivo: privo di pietà, si diverte a deridere gli
altri meno brillanti di lui; è inoltre un seduttore impenitente, al punto che
riesce a portarsi a letto sia la cameriera della locanda sia la figlia del suo
datore di lavoro con cui poi scapperà in città: in tal senso il film, pur non
mostrando scene di sesso, è piuttosto esplicito nel raccontare come tutto il
fatto romantico sia declassato a istinto sessuale, perché, come si diceva, il
vero motore passionale del film è nel denaro e nella sfida messa in atto per
ottenerlo, non nell’amore. Infatti, è solo quando rischia di perdere la sua
parte di tesoro che Arno si lascia prendere dall’emozione, mette da parte ogni
razionalità e sfoderando il coltello mostra anche lui, come gli altri, il suo
lato più aggressivo. Anche Svetocar e sua moglie non sono da meno: guidati
dall’avidità, accettano senza ripensamenti di cedere in matrimonio la loro
stessa figlia a Svetelenz in cambio della sua parte di tesoro. Tale
comportamento viene additato come riprovevole e incivile, ma per questo vengono
attribuite a Svetocar fattezze somatiche che, pur non dicendolo esplicitamente,
ne dichiarano l’origine semita. Perché solo un ebreo, secondo i pregiudizi
dell’epoca, avrebbe potuto vendere la propria figlia per denaro, e questo per
un tedesco di allora – in una società dove i matrimoni di interesse erano
invece all’ordine del giorno – era sia un mascheramento che un insulto.