Premesso che se uno vuole una immersione filologica all’opera di Scotellaro farebbe meglio a prendere il Baobab Mondadori a lui dedicato, ho dato una lettura all’introduzione di Arminio al libro uscito per Interno Poesia. Che a mio avviso ha dei pregi, o perlomeno ti lascia dei motivi di riflessione (se fossi Garboli ne tirerei fuori un saggio di 50 pagine), ma ha anche dei difetti. Il difetto maggiore è che Arminio tratta l’introduzione con eccessiva famigliarità e stringatezza, fa cioè una presentazione da poeta e non da curatore, con delle belle intuizioni (più intorno al testo che sul testo) di cui però lascia troppo spesso le possibili costruzioni all’intelligenza del lettore; in questi casi il lettore non vuole sentirsi più intelligente del curatore, vuole sentirsi stupido, vuole cioè un curatore che gli rivanghi e rimescoli la terra sotto i piedi, non che gli suggerisca delle tracce o che gli dica “queste sono vicende note, almeno agli addetti ai lavori” per passare velocemente ad altro. Va anche bene, come avverte, togliere le date sotto le poesie in una vicenda durata pochissimi anni in un paesaggio di riferimento (il mondo contadino lucano della metà del ‘900) collocato in un tempo fuori dalla storia (Levi), se il tuo interesse è decontestualizzare il verso dalla sua epoca e vedere come regge al trascorrere del tempo (anche perché mi pare che il sospetto di fondo, che si vuole fugare, è quello che Scotellaro venga letto più per la caratura eroica della sua figura che non per la bellezza dei suoi versi, più in chiave storico-politica che estetica); però almeno nell’intro qualche parola in più sull’uomo e sulle sue scelte appassionate e su come è entrato nella tua vicenda personale si sarebbe potuta dare. Perché una cosa è googlare il nome e leggere la bio su Wikipedia, un’altra è che un autore ti parli col cuore in mano della vita e dell’opera di un altro poeta con cui ha così evidenti punti di contatto, cosa che Arminio ha fatto invece con grande amore (e cura) per Gianni Celati: il pezzo scritto per Doppiozero alla sua morte in questo senso è esemplare. Questo nell’introduzione mi è mancato. Mentre il rimontaggio emotivo, o musicale, dei testi, per ciò che ho letto finora, non mi dispiace. Le prime poesie ad esempio, con un montaggio che ne scandisce una dietro l’altra alcune dedicate alla notte, o meglio alle ore poco prima dell’alba, quelle più buie ma che preannunciano il detto “è fatto giorno” hanno, così vicine, una più forte carica espressiva, ma tutta la raccolta è piena di una notte che almeno a me fa pensare a Goya, il Goya in bianco e nero delle incisioni, visto che nell’intro Arminio parla di “colore”, dove quello di Scotellaro non è certo lo stesso di Carlo Levi, indirizzato a tinte più pastose e ocra. Quasi in conclusione Arminio osserva come il tempo Scotellaro (come però anche quello di Bertolucci o di Guerra o di Buttitta) era ancora un tempo in cui si potevano mettere insieme “il fiato caldo dei contadini e le lettere ai poeti”, mentre oggi un poeta non sa nemmeno più dove trovarli i contadini. È vero. Io che vivo in un centro rurale del sud mi sono chiesto quanti contadini veri conosco, gente cioè che vive del proprio lavoro con la terra. Mio nonno era contadino e quindi grazie a lui ne ho conosciuti, ma se dovessi dire oggi chi c’è, forse ne conosco un paio al massimo, e tutti hanno l’età di mio padre. Ma un poeta che vive in una qualsiasi città d’Italia e che giornalmente scrive come me ad altri poeti, quanti contadini conosce? Quanti ne frequenta giornalmente? E come la considera questa, vittoria o sconfitta, o è indifferente? Per Arminio quella combattuta da Scotellaro, per quanto nobile, è stata una battaglia persa di un’Italia che non c’è più. Restano i suoi versi di cui, oltre all’integrità dell’uomo, si cerca di sondare l’attualità, o meglio la loro capacità di essere per noi, oggi, al di là del loro tempo. Nessuno, ad esempio, si chiede così insistentemente del tempo di Fortini o Luzi mentre legge i loro versi, perché i versi di Fortini o Luzi, così legati al loro tempo, sono “anche” al di là di quello. Succede anche per Scotellaro? Questo libro, mi pare, prova a sondare questa domanda. A un certo punto, mentre ripassavo al volo le sue poesie ho trovato la parola “zappatori”. Parlo per me, ma credo di averla sentita l’ultima volta anni fa, nel 2009, durante uno spettacolo di Gabriele Lavia sul “Sabato del villaggio” di Giacomo Leopardi. Nel mio paese non la usa più nessuno, e almeno per me questa parola è già qualcosa di fuori dal tempo, ma in che modo è ancora tutto da capire.
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