Esiste una profonda differenza tra la maggior parte degli autori ebrei che sono diventati celebri nella letteratura tedesca, e un piccolissimo gruppo che è però di altissimo livello. Per quelli del primo gruppo, come ad esempio nell’ultima generazione Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann, Franz Werfel, Stefan Zweig, il fatto di appartenere alla cultura tedesca, ovvero al popolo tedesco, è cosa ovvia. A questa inquietante e tragica illusione, che già
uno dei primi autori di tal specie, Berthold Auerbach, pagò alla fine della sua vita e all’inizio del movimento [antiebraico] di Stöcker con le parole divenute famose e ahimé! buttate al vento: «Vissuto invano, sofferto invano», soltanto pochi tra i cervelli di prim’ordine dell’ebraismo di lingua tedesca sono sfuggiti. Tra costoro si annoverano Freud, Kafka e Benjamin. Quasi per l’intera loro esistenza essi si sono serbati indenni dalla fraseologia tedesca, anzi dall’espressione «noi tedeschi», e scrissero con piena coscienza della distanza che, in quanto ebrei, li divideva dai loro lettori tedeschi. Essi sono i più validi tra gli autori cosiddetti ebraico-tedeschi, e la loro vita attesta tale distanza, il suo pathos e le qualità o possibilità creative che per essi ne scaturivano, non meno dei loro scritti, nei quali, seppure avviene, assai raramente si accenna all’ebraismo. Essi non s’illudono. Sanno di essere scrittori di lingua tedesca, ma di non essere ‘tedeschi’. L’esperienza e la limpida consapevolezza dell’estraneità, anzi dell’esilio, che la maggior parte degli altri autori dell’élite ebraico-tedesca si sono arrovellati a evitare o a negare tanto radicalmente e seriamente, e tuttavia senza alcun risultato, non sono dileguate in loro. Per quanto fortemente essi si sappiano legati alla lingua tedesca e al suo mondo spirituale, non sono mai stati vittime dell’illusione di trovarsi in patria – un’illusione dalla quale avrebbero dovuto preservarli esperienze ben precise della loro vita (che però in altri casi non sono servite affatto). Non so se si sarebbero sentiti in patria in Israele. Ne dubito molto. Erano, nel vero senso della parola, uomini di un altro paese: e lo sapevano.
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GERSHOM SCHOLEM, Walter Benjamin e il suo angelo (Adelphi, 1978)
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