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venerdì 26 luglio 2024

il prologo

Piel Jutzi, regista tedesco adorato da Fassbinder ma poco conosciuto in Italia, nel 1929 gira quello che molti considerano il suo capolavoro, il film muto Mutter Krausens Fahrt ins Glück (Il viaggio di mamma Krause verso la felicità), considerato uno dei più rappresentativi della Nuova oggettività, di forte impianto sociale, e socialista (al punto da essere uno dei primi film censurati e distrutti dai nazionalsocialisti al potere), con alcune scene meravigliose per intensità e per l’uso così vivace ed espressivo del montaggio, di cui Jutsi era maestro. Al di là della storia, di chiaro impianto brechtiano, girato con attori non professionisti nel quartiere operaio di Wedding a Berlino (una madre che vive in un ambiente degradato viene schiacciata dalla povertà e dalla condotta irresponsabile dei figli, e in tal senso il viaggio verso la “felicità” del titolo ha un sapore beffardo), la nota più interessante del film riguarda il prologo, di circa 6 minuti, in cui una ripresa semidocumentaristica delle strade di Berlino viene intervallata da alcuni versi dell’artista Heinrich Zille, soffermandosi sui volti e sui gesti di alcuni dei suoi molti abitanti, sorvolando a volo d'uccello una delle grandi statue d’angelo che guardano dall’alto i casermoni e le strade brulicanti di bambini, operai, anziani, alcolizzati, disoccupati, i cavalli sfiancati che tirano le carrozze, gli artisti circensi e i musicisti di strada, per poi planare verso la finestra di una palazzina popolare, entrarvi e soffermarsi sulla storia in particolare di mamma Krause e dei suoi figli sfortunati. Qualcosa di molto simile a ciò che farà cinquant’anni dopo Wim Wenders, di ritorno dal suo periodo americano, ne Il cielo sopra Berlino, dilatando questi sei minuti per circa mezz’ora.

sabato 6 gennaio 2024

uomini di un altro paese

Esiste una profonda differenza tra la maggior parte degli autori ebrei che sono diventati celebri nella letteratura tedesca, e un piccolissimo gruppo che è però di altissimo livello. Per quelli del primo gruppo, come ad esempio nell’ultima generazione Arthur Schnitzler, Jakob Wassermann, Franz Werfel, Stefan Zweig, il fatto di appartenere alla cultura tedesca, ovvero al popolo tedesco, è cosa ovvia. A questa inquietante e tragica illusione, che già uno dei primi autori di tal specie, Berthold Auerbach, pagò alla fine della sua vita e all’inizio del movimento [antiebraico] di Stöcker con le parole divenute famose e ahimé! buttate al vento: «Vissuto invano, sofferto invano», soltanto pochi tra i cervelli di prim’ordine dell’ebraismo di lingua tedesca sono sfuggiti. Tra costoro si annoverano Freud, Kafka e Benjamin. Quasi per l’intera loro esistenza essi si sono serbati indenni dalla fraseologia tedesca, anzi dall’espressione «noi tedeschi», e scrissero con piena coscienza della distanza che, in quanto ebrei, li divideva dai loro lettori tedeschi. Essi sono i più validi tra gli autori cosiddetti ebraico-tedeschi, e la loro vita attesta tale distanza, il suo pathos e le qualità o possibilità creative che per essi ne scaturivano, non meno dei loro scritti, nei quali, seppure avviene, assai raramente si accenna all’ebraismo. Essi non s’illudono. Sanno di essere scrittori di lingua tedesca, ma di non essere ‘tedeschi’. L’esperienza e la limpida consapevolezza dell’estraneità, anzi dell’esilio, che la maggior parte degli altri autori dell’élite ebraico-tedesca si sono arrovellati a evitare o a negare tanto radicalmente e seriamente, e tuttavia senza alcun risultato, non sono dileguate in loro. Per quanto fortemente essi si sappiano legati alla lingua tedesca e al suo mondo spirituale, non sono mai stati vittime dell’illusione di trovarsi in patria – un’illusione dalla quale avrebbero dovuto preservarli esperienze ben precise della loro vita (che però in altri casi non sono servite affatto). Non so se si sarebbero sentiti in patria in Israele. Ne dubito molto. Erano, nel vero senso della parola, uomini di un altro paese: e lo sapevano.

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GERSHOM SCHOLEM, Walter Benjamin e il suo angelo (Adelphi, 1978)