Ieri leggevo Cesare Garboli che in un saggio sulla Ginzburg scrive: «Il romanzo non è forse stato inventato dall’uomo – dalla donna che è nell’uomo – per le donne?». Garboli attribuisce insomma alla forma romanzo un genere prevalentemente femminile, o comunque diretto dal maschile al femminile, e non a caso dedica la maggior parte delle sue energie critiche, su quel fronte, a Natalia Ginzburg e ad Elsa Morante, che ritiene le due massime espressioni di romanziere del Novecento italiano, mentre al contrario mi par di capire la forma poesia ha per lui un’attitudine più fortemente maschile. Mi ha fatto pensare a Nino Pedretti che nel suo dialetto romagnolo dice “i poeséi”, declinando poesie al maschile: nel suo dialetto cioè, prima che l’italiano arrivasse a livellare i generi, la poesia è di genere maschile, e chissà in quali altri paesi succede così. Tornando a Garboli, il modo in cui sente la poesia deriva, immagino, dal fatto che Garboli si è formato sull’opera di Dante, che ha connotati fortemente maschili, ma fa particolare specie quando ti accorgi che i poeti prediletti da Garboli, quelli a cui ha dato di più in termine di amore di lettore, sono Sandro Penna, poeta discretissimo che canta l’amore omoerotico per il fanciullo, e Giovanni Pascoli, poeta tragico ma così poco mascolino, così morbosamente legato alle gonne famigliari, ma che nella sua interpretazione viene liberato dall’immagine del fanciullino per entrare in uno stato di premorte, Pascoli in Garboli è un bambino nato morto e costretto a passare suo malgrado sulla Terra, un po’ come all’opposto Dante è un vivo che, ricalcando lo schema classico, viene costretto dalla vita a muoversi nell’oltretomba. Ma ancora Dante, un po’ come nell’idea di romanzo che ha Garboli, è diretto dal maschile (Virgilio) al femminile (Beatrice) per arrivare a Dio, che è l’universo e che Dante descrive, guarda caso, come un libro.
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