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martedì 2 aprile 2024

la mia vagina

 
Comincio col dire che LA MIA VAGINA, a cura da Massimo Maurizio ed edito da Stilo Editrice, è un libro bellissimo, talmente bello che avrei voluto pubblicarlo io. Ed è anche tutto ciò che per me dovrebbe essere un libro oggi, bello esteticamente, nei versi, ma col coraggio di esprimere un’idea sul mondo, una visione, magari non condivisa da tutti, ma talmente chiara e forte da poter esprimere un punto di partenza per un dialogo. “Antologia di poesia femminista russa contemporanea” aggiunge il sottotitolo, lì dove il femminismo non è una moda ma una esigenza, è un’opera tradotta benissimo e con grande sensibilità che ha, ripeto, una fortissima connotazione politica, primo perché realizzata in una nazione sempre più omofoba e repressiva – dove i movimenti omosessuali sono paragonati per legge a quelli terroristici – e secondo perché per il solo fatto di essere stato scritto da donne che parlano liberamente di sesso lesbico (da un punto di vista femminile) e violenza domestica istituzionalizzata le stesse autrici rischiano di essere processate. Non a caso alcuni testi sono pubblicati sotto pseudonimo per non mettere in pericolo le autrici, lì dove l’opera come discorso unitario viene prima della soddisfazione dell’ego del singolo autore, vale come atto di denuncia e riflessione su un problema generale. Allo stesso tempo sono poesie profondamente personali, di quel personale che può farsi voce collettiva trattando come fanno di problemi comuni legati all’affermazione di sé come individui in una società fortemente maschilista che nega qualsiasi parità alle donne e ai gay. Le poesie qui proposte sono tutte mediamente lunghe (dalla 3 alle 12 pagine l’una), rifiutano il tono lirico e le forme retoriche classiche, sono per lo più dialogiche nel dettato, prosastiche, usano un linguaggio diretto e versi lunghissimi, sono piene di urgenza, ma non prive di una certa ironia che spesso sconfina (pericolosamente) nella satira, sembrano testi nati per la lettura in pubblico e si prendono il diritto di affrontare apertamente (nonostante siano opere di donne!) temi come la guerra, di cui si sentono responsabili, la politica e la nuova società russa figlia del putinismo (a cui si oppongono) e definita acutamente come “post-coloniale” creando un confronto diretto col colonialismo europeo (dove il colonialismo è “uomo”, la nazione è “massimamente uomo”), la violenza diffusa respirata persino negli ambienti della cultura che censura le voci femminili o le vede come prede sessuali (vedi la lunghissima e stupenda “Che cosa so della violenza” di Oksana Vasjakina che mi ha fatto vergognare di me e dei miei stessi comportamenti). Perché la poesia arriva un passo più in là degli slogan #metoo, e perché un libro così comincia dalla Russia ma va ben oltre i suoi confini, affrontando temi che sono inevitabilmente condivisibili. Così, una delle formule corali che più ricorre nel libro è “io voglio parlarne con voi”, ma non su Facebook, non sui social avvertono le autrici, parliamone di persona, faccia a faccia, in pubblico, per strada, in movimento, anche a rischio di finire arrestate, purché ci sia un’eco, un cambiamento.


giovedì 23 novembre 2023

il potere e la colpa

Il patriarcato, il maschilismo, il machismo, e tutto quel complesso meccanismo per cui siamo cresciuti in una società dove alcuni uomini hanno più vantaggi rispetto ad alcune donne esiste eccome, coi debiti distinguo, perché ogni vantaggio è sempre mediato dalla possibilità sociale ed economica di chi lo esercita: una donna ricca ha sempre più vantaggi di un uomo povero, una donna nata a Milano ne ha più di un uomo nato in Calabria, una donna nata in una famiglia colta ha molti più vantaggi di un uomo con la terza media, una donna che lavora come manager in un’azienda ne ha di più di un uomo che lavora in fabbrica, una madre coinvolta in una separazione ha sempre qualche vantaggio in più del padre. Ma nella maggior parte dei casi quel vantaggio esiste e chi lo nega sa di sminuire la realtà. Certo la realtà sta cambiando, ai tempi dei miei nonni, visto che parlano tutti del patriarcato dei nonni, mia nonna avrebbe trovato aberrante che una donna si rivoltasse contro il “proprio” uomo. Era la sua cultura quella, una cultura profondamente rurale, contadina e cristiana, e noi ora possiamo dire che era una cultura sbagliata e che mia nonna era una vittima, o una complice, del patriarcato perché non capiva come stavano i macrosistemi sociali ed economici che muovono il mondo, ma non possiamo dire che mia nonna e la sua cultura non vadano rispettati, altrimenti facciamo come gli americani che vanno ad invadere gli altri paesi per esportare il loro modello di democrazia. Del resto, come diceva il mio amico Nannino il brasiliano, noi siamo tutti “americanizzati”, anche chi adesso odia l’America. Noi la pensiamo diversamente dai nostri nonni, in tutto, e io stesso sono pieno di colpe per come ho gestito male molte relazioni, ma è un fatto mio, relativo al mio vissuto e non certo a quello degli altri, e il primo responsabile dei miei errori sono io stesso. Ancora, dati alla mano, anche se la percezione è diversa, l’Italia è uno dei paesi con meno femminicidi nel mondo. Vai in un qualsiasi paese dell’est Europa (Lettonia in testa, dove i dati vengono quasi decuplicati), o vai in medio oriente (Afghanistan, Iran, ecc.), o in Africa (dove in alcune zone si pratica ancora l’infibulazione), fai un confronto con quei paesi e allora ti accorgi che nemmeno le donne sono tutte uguali, parlando di potere, che alcune donne per il solo fatto di essere nate in determinati paesi hanno più vantaggi di altre, e per il solo fatto di vivere qui, di sfruttare economicamente questo potere, sono, volenti o no, colpevoli verso di loro. E servirebbe una presa di coscienza globale, lì dove non riusciamo a metterci d’accordo nemmeno su problemi relativi alla sopravvivenza della specie, come i problemi ambientali, che ci sono allo stesso modo, e chi lo nega sminuisce, ancora una volta, la realtà. Una donna può anche dirmi, adesso, che faccio del benaltrismo, che non si sta parlando di cosa succede in Medioriente o al clima, che si vuole un cambiamento, o meglio ancora una presa di coscienza qui e ora, ma chiedere una presa di coscienza istantanea, un cambiamento culturale in mezza giornata è già il frutto di una visione della vita che è tutta occidentale, consumistica, dove non c’è tempo da perdere, dove basta cliccare un tasto sul telefono per ottenere ciò che vuoi in 24/48 ore da qualsiasi angolo del mondo. Altro che educazione, che invece è un processo che richiede anni! Ci neghiamo il tempo di imparare, di crescere come si deve, poi pretendiamo che tutti imparino ad ascoltare se stessi da un giorno all’altro. Come fare meditazione zen coi corsi scaricati da YouTube. Ma processi come questo, in cui un sistema sociale, culturale, viene sostituito da un altro, sono lunghi, durano decenni, secoli a volte (vedi la Chiesa che sono due secoli che sta morendo e ancora resiste), ci superano, e il fatto che siamo qui a parlarne non significa che stiamo eroicamente attivando l’inizio di un movimento nuovo, significa solo che molto tempo fa questo cambiamento ha cominciato ad attecchire grazie al lavoro di altri e adesso noi che ci siamo dentro, anche inconsapevolmente, partecipiamo al flusso del cambiamento, ne godiamo in parte i risultati, perché fossimo nati altrove ci avrebbero probabilmente messi in prigione, o impiccati in piazza. E anche per questo dobbiamo dare a tutti il tempo di arrivarci con le proprie gambe, perché se no facciamo come gli americani in Afghanistan, che quando sono andati via è stato come tornare indietro di vent’anni. Io almeno, da “americanizzato”, mi sento molto in colpa per l’Afghanistan, come se fosse anche colpa mia. Ecco, questo direbbe lo storico che c’è in me, se facessi ancora lo storico, o meglio se avessi avuto maggiori vantaggi per potermi infilare in qualche università a leccar culi dei magnifici rettori. Cosa di cui non avevo proprio voglia e non ho fatto.

martedì 12 marzo 2019

una causa più alta

Leggendo il (bel) pezzo di Zad El Bacha sul gesto dimostrativo contro il monumento di Montanelli da parte del collettivo femminista NUDM, ho capito le motivazioni profonde del gesto. Eppure, ammetto che vedere imbrattata la statua di uno scrittore, di un uomo che cioè scrive, che racconta il proprio tempo, continua a darmi fastidio e farmi pensare che scegliere proprio quella statua, invece di mettere a fuoco il problema lo abbia come banalizzato e spento. Perché, al di là di tutte le possibili interpretazioni simboliche, quello è e rimane il monumento a Montanelli giornalista e non a Montanelli colonialista. E l’idea che non si possa scindere la propria identità lavorativa da quella umana mi sembra in qualche depauperante. Così, utilizzare quel monumento come pietra dello scandalo per denunciare il trattamento verso le donne africane subito durante il colonialismo, mi pare un po’ come se si volesse annullare un percorso umano più complesso, per riassumere l’intera vita di Montanelli in un solo gesto infamante. Un po’come se si andasse a dimostrare sulla tomba di Céline per denunciare la deportazione degli ebrei francesi. O come se si censurasse l’ultimo film di Woody Allen per riparare ai danni delle molestie sessuali nel mondo cinematografico americano. Ancora si dice: quella messa in atto non è una presa di posizione contro Montanelli in se stesso, ma contro ciò che rappresenta come maschio italiano dell’epoca. Si chiama politica del capro espiatorio. Ne condanni uno per assolvere tutti gli altri. In questo caso quell’uno è il giornalista Montanelli. Uomo di destra, di cultura orgogliosamente borghese, spesso arrogante. Insomma, uno che sta poco simpatico. E Montanelli, in effetti, si comportò da stronzo nella storia di quella bambina, tanto più che, senza mai scusarsi, cercò sempre di giustificarsi. Eppure, a differenza di altri, Montanelli ne ha parlato pubblicamente. Di tutti gli italiani che con lui si vogliono riassumere ma non hanno mai parlato, che vogliamo fare? Dei vostri nonni, dei bisnonni, che ne facciamo? Li lasciamo in pace perché Montanelli paga pegno per tutti? Ecco allora che mi chiedo: non sarebbe stato più giusto, visto che il problema era il contesto, andare a gettare quel secchio di vernice su un qualsiasi monumento dedicato alle guerre coloniali, prenderli tutti insieme e non uno per tutti? Ce ne sono, in Italia, di monumenti collettivi, anche se la memoria storica li ha velocemente oscurati. No, perché Montanelli avrebbe causato più scalpore, proprio in virtù di quella vicenda di cui si è detto e su cui si è montato negli anni un caso mediatico. In altre parole, ancora una volta è vero che è il contesto a fare la differenza, ma il contesto televisivo che ci permea tutti, il contesto populista in cui viviamo e in cui servono persone, con nomi e cognomi, da mettere alla gogna, lo stesso contesto di massa, del più forte contro il più debole, che portò Montanelli (o Malaparte, per dire un altro) in Africa a fare quello che facevano tutti senza opporsi: prendersela con una persona che non può difendersi, in nome di una causa o di una giustizia più alta.