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giovedì 16 novembre 2023

seduzione

Alcuni artisti, in genere i più indipendenti – quelli che oggi vengono definiti geni ribelli – alle prese con Hollywood ebbero più problemi che gratificazioni. Charlie Chaplin, ad esempio, venne cacciato dall’America per la sua vita scandalosa, e ancora di più Orson Welles o Erich Von Stroheim che nella terra della libertà finirono esattamente come Eisenstein sotto Stalin, incompresi, e per questo temuti, ostacolati e censurati a vita con la scusa che erano “inaffidabili”. Ma problemi ebbero anche tutti coloro che sulle prime erano stati accolti a braccia aperte. Per Fritz Lang l’America cominciò come una lunga vacanza e si chiuse nel disgusto per Hollywood. Jean Renoir, meno cinico e assai più poetico, quel disgusto lo avvertì da subito e non riuscì mai ad adeguarsi al sistema, fu anzi uno dei pochi a scappare da quella gabbia di matti, rimpatriando subito dopo la guerra. Mentre Murnau faceva di necessità virtù e compensava malumori artistici e cattiva fama personale con la frequentazione di bei ragazzi disponibili. L’unico regista europeo emigrato a Hollywood che in America si sentì liberato fu Ernst Lubitsch a cui tutta quell’ipocrisia americana piaceva da matti. Ci sguazzava dentro come un maiale nel fango, e infatti il decantato “Lubitsch touch”, come lo definivano i suoi ammiratori, Billy Wilder in testa, altro non era che l’insieme degli espedienti visivi e narrativi studiati da Lubitsch per aggirare la ferrea censura americana. E il più delle volte ci riusciva perché Lubitsch non solo era un genio, ma ci si divertiva. Tutto quel divertimento si avverte e rende le sue pellicole ancora deliziose. La cosa più bella, però, è stata scoprire come il primo film perfettamente compiuto da Lubitsch in America – e non scordiamo che L. era arrivato dall’Europa con la fama di regista di drammoni storici – il primo film realizzato nel nuovo stile “americano” in cui poi eccelse, quel tipo di commedia romantica, brillantissima, leggera, ma non frivola, sensuale, allusiva e agile, perfettamente caricata come un orologio austriaco, sia The Marriage Circle, film ancora muto che parla di seduzione, di desiderio come vero motore della vita, di scambi di coppia e di corna senza pentimento, e tutto questo nel 1924; la cosa più bella è stata scoprire come tale opera, e tutta la rivoluzione stilistica che si porta dietro, sia stata ispirata, o meglio ancora stimolata, dalla visione di A Woman of Paris di Charlie Chaplin, primo film drammatico, e delicatissimo, del regista inglese che nel 1923 sfidò il pubblico americano a seguirlo in una storia matura, senza il vagabondo e senza nemmeno un vero e proprio lieto fine. Infatti al pubblico non piacque e non lo premiò, ma la visione di quel film motivò l’arte di Lubitsch a fare un salto di stile. Perché una volta i film, e tutte le opere d’arte, avevano questo potere, almeno una volta ce lo avevano.

venerdì 19 agosto 2022

fantasma

 
Fantasma (1922) di Murnau sviluppa in due ore circa una storia appassionante ma che ha dell’incredibile. Giovane integerrimo poeta sogna – e le scene oniriche sono il fiore all’occhiello del film – il grande amore e di pubblicare il suo libro. Per questo va da sua zia che fa l’usuraio e chiede un prestito per stampare il libro che la zia, desiderosa di un riscatto sociale, incredibilmente concede. Ma il poeta, lasciandosi corrompere dal denaro, scorda i suoi buoni propositi e spende tutto con una puttana. La zia usuraio venutolo a sapere lo minaccia: o restituisce i soldi oppure lo denuncia. Offre addirittura una terza alternativa: chiede i diritti sulle vendite del libro, cosa che ti fa chiedere quanto cacchio vendevano i libri di poesia ai primi del 900 in Germania. Ma il poeta confessa che è stato tutto un bluff, non c’è nessun libro, nessun riscatto sociale per la zia usuraio che si adira. Il poeta e il suo complice provano prima a rapinare la zia di notte e poi, scoperti, la uccidono, finendo in prigione. Insomma, in quella sorta di confusione dei ruoli di cui il film è zeppo, viene fuori che l’usuraio era quasi il buono e il poeta il quasi cattivo della storia. Poveri poeti! Nota da segnalare, la sceneggiatura assai intricata e piena di colpi di scena che rimandano al feuilleton è opera di Thea von Harbou, moglie di Fritz Lang. Si vede e bisogna dargliene atto, perché – a causa delle sue simpatie naziste – si tende a scordare il suo ruolo fondamentale nell’evoluzione del cinema espressionista tedesco, e non solo per aver scritto Metropolis.

venerdì 4 marzo 2022

les carabiniers

Ho appena finito di vedere quello che, almeno per i miei gusti, è uno dei più bei film di Godard dei Sessanta, l’assai sottovalutato Les Carabiniers del 1963. Realizzato in appena tre settimane, al contrario di altri suoi film ha una trama solida, probabilmente perché adattato da un testo teatrale insieme a Roberto Rossellini e Jean Gruault. Girato in un efficace bianco e nero sporco, il film è chiaramente debitore tanto di Brecht, soprattutto per l’uso delle didascalie, quanto di certo cinema neorealista e per certi versi ricorda il primo Pasolini. Non ha però una trasposizione in italiano – si può vederlo solo in francese coi sottotitoli – perché l’arma dei Carabinieri all’epoca si sentì offesa dall’adattamento di Rossellini e da come si vedevano rappresentati. Una cosa simile era già capitata cinque anni prima con La grande guerra di Monicelli, che ha qualcosa di simile nel soggetto, quando l’esercito si ritenne offeso dall’immagine che se ne dava e pretese un riscatto finale dei due protagonisti. Ma nemmeno in Francia il film andò bene, tanto che Godard corse ai ripari girando immediatamente Il disprezzo attraverso cui riprese quota al botteghino mostrando il culo della Bardot, insieme a quel genio di Fritz Lang e a Villa Malaparte. Di cosa parla il film di Godard? Di due poveracci che vivono nelle baracche con le loro compagne e vengono arruolati dai carabinieri (fucilieri) del re con la promessa di potersi facilmente arricchire in guerra, attraverso il saccheggio. Quando vanno in guerra uccidono, stuprano, rapinano senza il minimo rimorso, ma quando tornano a casa sono più poveri di prima. Allo scoppio di una rivoluzione vengono ammazzati, proprio dai carabinieri, per ordine del re. Rispetto a quello di Monicelli in questo caso non c’è nessuna maturazione o riscatto personale: i due protagonisti sono degli imbecilli amorali che non solo vengono abbruttiti dalla guerra, ma muoiono senza nemmeno capire il male che hanno fatto. Ragion per cui il film all’epoca venne letteralmente stroncato dalla critica che rinfacciò a Godard – ingiustamente – di aver semplificato la guerra e per questo offeso le sue vittime. Il pubblico, in ogni caso, preferì Il disprezzo.

domenica 26 dicembre 2021

pomeriggio a tema


Oggi mi sono preso il pomeriggio e ho visto di seguito “Jess il bandito” (1939) di Henry King, con Tyrone Power, Henry Fonda e John Carradine; “Il vendicatore di Jess il bandito” (1940) di Fritz Lang, che ne è il seguito e mantiene quasi lo stesso cast; “Ho ucciso Jess il bandito” (1949) di Samuel Fuller, con John Ireland, Barbara Britton e Preston Foster. Ogni titolo analizza il percorso di ciascuno dei tre protagonisti della stessa epopea western, dove il leggendario Jesse James, a capo di una banda di rapinatori, viene tradito da uno dei suoi complici, Robert Ford, che lo uccide sparandogli alle spalle per poi fuggire inseguito da Frank, fratello di Jesse, in cerca di vendetta. Il primo dei tre titoli, uscito nello stesso anno di “Ombre rosse” di John Ford, in patria viene considerato un classico del genere, ma è sostanzialmente un buon film di intrattenimento; il secondo, fra i minori di Lang, ha un tono ancora più scanzonato e anticipa per certi versi uno spaghetti western. In entrambi giganteggia Henry Fonda nel ruolo di Frank James, spalla di un fratello ingombrante di cui deve prendere suo malgrado il posto spinto dal proprio senso del dovere. Il terzo film, invece, è il primo diretto dal grande Samuel Fuller che trasforma la vicenda western in una tragedia greca, intinta in un bianco e nero sporco, dove non è più possibile distinguere i buoni dai cattivi, gli innocenti dai colpevoli, perché, nonostante sia Robert Ford (un John Ireland istintivo, amorale ed egoista) quello marchiato dall’infamia di traditore, a loro modo traditori lo sono tutti.

martedì 22 giugno 2021

negri in festa

Ho letto con grande interesse due interviste di Peter Bogdanovich a Fritz Lang e Orson Welles. Pare evidente che P.B. abbia particolare affetto per questi due outsider, registi antesignani di certo cinema indipendente, che avevano un rapporto di odio/amore con la produzione cinematografica americana. Uno dei motivi di questa tensione è a sfondo razziale. Ad esempio, quando Lang propose in “Bassa marea”, uno dei suoi film minori, che il protagonista uccidesse, nel tentativo di violentarla, una serva di colore, la produzione gli negò il permesso e impose che l’uomo facesse le stesse cose a una bianca. Il problema non era che l’uomo del film violentasse o uccidesse la donna, ma che provasse desiderio sessuale per una negra. Ancora, uno dei più grossi scandali che coinvolse la carriera di Welles – quasi gliela rovinò – fu il suo invio in Brasile nel 1942 per ragioni diplomatiche, incaricato dal Governo di realizzare un documentario in tre parti, la prima delle quasi sul carnevale di Rio. Durante la sua assenza gli studi RKO presero il film che aveva lasciato in fase di montaggio, “L’orgoglio degli Amberson” e, trovandolo troppo cupo, lo modificarono radicalmente per venire incontro ai gusti del pubblico. Quando Welles si oppose agli studi dicendo di non essere stato interpellato per tali cambiamenti, gli studi gli rinfacciarono di aver abbandonato il film a metà per correre in Brasile a girare un nuovo film per suo capriccio. Lui disse di esserci stato mandato su incarico del governo, e il governo negò, alimentando la leggenda del regista inaffidabile. Perché successe? Per due motivi, primo perché nel frattempo era cambiata la situazione politica internazionale e agli Stati Uniti premevano di meno i rapporti col Brasile, e secondo perché nessuno aveva ben capito cosa fosse il carnevale di Rio e quando Welles ritornò in patria col girato, il Governo si trovò con metri e metri di pellicola – finanziati con soldi pubblici dei bravi cittadini americani – in cui venivano riprese centinaia di negri in festa. Meglio insabbiare tutto e dare la colpa all’intemperanza del regista.

lunedì 14 giugno 2021

post lang

Dopo il post di ieri, oggi molti amici mi chiedevano com'è stato il film di Fritz Lang che ho visto ieri (e se fossi sopravvissuto). Sul film rispondo: Bellissimo! Solo che dopo mi ha preso una colica e ho passato la notte in bianco. Ho pensato che deve esserci una sorta di legge del contrappasso per cui per ogni bel film o libro o disco che ti arriva, ti prendi anche un po' di cacca per bilanciare. Ecco perché c'è tanta gente là fuori che non legge, il contrappasso non perdona. Alla fine, forse, ha ragione Woody Allen, la perfezione sarebbe vivere sempre e soltanto nei film, chiudere fuori la vita, il dolore, la perdita e le notti in bianco. Che poi è il succo di Matrix, prima che arrivasse Keanu Reeves a rompere tutto.

domenica 13 giugno 2021

nerd

Mi chiama un amico per farmi gli auguri del santo e mi chiede che farò oggi. Io gli rispondo che a breve mi metto comodo sul divano e mi guardo tutto “I Nibelunghi” di Fritz Lang, film muto degli anni venti lungo quattro ore e mezzo (serve appunto un pomeriggio intero per vederselo e ne approfitto).
Madonna, ma sei serio?
Certo, perché no? Guarda che I Nibelunghi è una saga fantasy, con tanto di draghi. E dura anche meno di Guerre stellari.
Sì, ma è un film muto di quattro ore e mezzo! È la cosa più da nerd che ho mai sentito, è come la Murgia che se la mena con la classica invece di ascoltare la musica normale.
Il mio amico è un genio della pizzicata. Ecco che in un solo colpo non so più se devo sentirmi offeso io, si deve sentire offesa la Murgia, si deve sentire offesa la musica tutta, quella “normale” e la classica, o si deve sentire offeso Fritz Lang, messo sullo stesso piano di Fantozzi con la corazzata Kotiomkin, quando è chiaramente il papà di Indiana Jones, Dungeons & Dragons e 007.
Io ovviamente resto un povero nerd come tanti, così ringrazio, saluto e dico addio a questo mondo per le prossime cinque ore.

 

giovedì 15 aprile 2021

il testamento del dr. mabuse

Il testamento del dr. Mabuse del 1933 è stato il secondo film sonoro e l’ultimo film girato in Germania, prima dell’esilio, da Fritz Lang. Se ne possono trovare due versioni in rete: quella definita “francese” perché uscita in Francia negli anni ’30 con un taglio di circa mezz’ora sulle due ore originali (la qualità video è pessima, ma è doppiata in italiano: fra le altre si sente la voce di Gino Cervi dire: «Non vorrai rinnegare un buon camerata perché è stato pescato»), e quella “originale”, restaurata di recente nella sua interezza (bellissima come qualità video, ma in tedesco con sottotitoli in inglese o spagnolo). Il film non arriva alla bellezza dei suoi predecessori – con Il dr. Mabuse sopra tutti gli altri – ma appartiene ancora, sotto ogni aspetto formale, alla produzione altissima di Lang; il quale, gli va riconosciuto, film brutti non ne ha mai fatti. Dal punto di vista della trama, forse la cosa più notevole è la presenza di un particolare personaggio, il commissario Karl Lohmann (interpretato da Otto Wernicke), il quale era già stato fra i protagonisti del precedente M. il mostro di Düsseldorf del 1931. È la prima volta questa, ma non l’ultima, che Lang utilizza lo stesso personaggio o attore in due film distinti, per creare un filo intertestuale fra le sue opere. In questa maniera cosa fa? Usando il commissario come punto di incontro meta-narrativo, inserisce nella stessa trama due diversi paesaggi/plot narrativi e finisce per farli confondere: sia quello del dr. Mabuse sia quello di M. hanno al loro centro il vivace sottobosco criminale che sembra contaminare – col piglio brechtiano di una vera e propria epica dei bassifondi – ogni singolo aspetto sociale della Germania dell’epoca. Non solo, a predominare sulle bande che fanno il bello e cattivo tempo, fino al punto di istituire un vero e proprio tribunale criminale, sono lo spietato Schranker (in M.) è il dr. Baum (nel Testamento) il quale, proprio come il dr. Mabuse, è completamente pazzo. Non per nulla gli ultimi film di Lang non piacquero ai nazisti. Ancora, per quanto astuto sia, in entrambi i casi il commissario Lohmann riesce a sgominare le varie bande e vincere la sua sfida col male non in virtù del suo particolare talento, ma per un puro semplice caso: è la fortuna, ci dice Lang, e non la forza della Giustizia ad aiutare i buoni del mondo. E comunque, anche se i cattivi vengono presi, i crimini perpetrati rimarranno insanabili. «Chi ci ridarà i nostri bambini?» chiedono le madri vittime della furia omicida di M. alla fine del film. E lo stesso commissario Lohmann, in un atto di resa al caos che ha preso piede di fronte ai suoi occhi, commenta sconsolato l’arresto di Baum: «Non c’è più nulla qui che possa fare la giustizia umana», invocando quindi una forza più alta, sovraumana, che possa arginare il disastro. In questo modo il suo personaggio anticipa, nella sua consapevole impotenza, i poliziotti proposti alcuni anni dopo da Friedrich Dürrenmatt, in titoli come Il giudice e il suo boia o La promessa. Mentre lo stesso Lang chiuderà definitivamente i conti col dr. Mabuse circa trent’anni dopo, al suo ritorno in Germania.

lunedì 5 aprile 2021

la morte in riva al fiume


Per chi pratica il mercato dell’arte, non è raro imbattersi in categorie di comodo, e di massima, secondo cui o un’opera è un capolavoro oppure non è niente, non vale la pena non solo acquistarla, ma nemmeno guardarla. Eppure il mondo dell’arte vive soprattutto di fallimenti, più o meno spettacolari, ed è pieno di splendidi lavori minori, che non solo hanno grande dignità in se stessi, ma sono catalizzatori di idee e suggestioni non meno dei capolavori. Perché non ci sono camere a tenuta stagna o classi differenziate nel linguaggio dell’arte, tutto parla a tutto, ogni cosa bisbiglia e suggerisce, ai sensi di un autore. Ci pensavo ieri sera, guardando proprio un film “minore” di Fritz Lang, House by the River, del 1950 (passato in Italia come Bassa marea), uno dei classici film “di cassetta” dell’epoca, di cui Lang espatriato a Hollywood era maestro. Di cosa parla? Byrne, scrittore fallito e che beve – tutti i falliti del primo cinema noir americano sono scrittori alcolizzati, sui modelli “reali” di Chandler e Fitzgerald – prova a sedurre la giovane cameriera, la ammazza accidentalmente quando lei si rifiuta, quindi ne nasconde il cadavere in un sacco e lo getta nel fiume che scorre vicino casa. Poi, nel classico schema del cinema langhiano, tutto basato sui concetti di “colpa” e di “destino”, viene preso da una sorta di demone e, invece di insabbiare tutto, si lancia in una sorta di gioco in cui sfida di continuo l’opinione pubblica a scoprirlo, disseminando indizi e dichiarazioni che lo accusano palesemente, finché, scoperto per davvero, prova a uccidere suo fratello e la sua stessa moglie e resta ucciso a sua volta. La scena più cupa e avvincente del film è quella in cui Byrne si accorge che il cadavere della ragazza è riemerso dal fondale e viene spinto dalle correnti lungo il fiume; comincia così a inseguirlo per tutta la notte su una barca, a un certo punto prova ad arpionarlo senza riuscirci, ma afferrando il sacco con un gancio, lo buca e in quel momento i capelli della ragazza fuoriescono dallo strappo e cominciano a fluttuare dolcemente nell’acqua torbida. Magari è tutta una mia suggestione, ma mentre guardavo questa scena, ho immaginato che fra gli spettatori del film ci fosse Charles Laughton, attore nella cui testa, cinque anni dopo, proprio quella scena “pompata” fino all’inverosimile e impregnata di espressionismo tedesco, esploderà portandolo a produrre e a girare il suo primo e ultimo film, The Night of the Hunter (passato in Italia come La morte corre sul fiume)* basato su un racconto del 1953 di Davis Grubb, con protagonista Robert Mitchum nella parte di un assassino seriale che insegue, sotto la luna piena, lungo un fiume, i figli di una delle sue vittime, sfuggiti alla sua folle violenza. Trasfigurandolo nel linguaggio della favola, il film di Lang viene smontato da Laughton in ogni suo elemento e rimontato scena per scena, immagine per immagine, estremizzando ogni sua suggestione: lì dove l’eroe di Lang era un marito fedifrago amorale, qui il reverendo di Laughton è un predicatore sessuofobico che sposa donne sole per poi ammazzarle, entrambe le pellicole si basano sul continuo gioco di specchi fra peccato e salvezza, sfida all’autorità e morte, con il reverendo che alla fine viene quasi linciato dalla folla, proprio come in Furia (1936) dello stesso Lang. Ma più di tutte le altre, la scena, macabra e affascinante, che fa da perno fra i due film, è proprio quella dei capelli. Nel primo film vediamo quelli, ma nient’altro del corpo della vittima, a un certo punto la polizia irrompe nella casa di Byrde annunciando il ritrovamento del cadavere. Nel secondo film, invece, Laughton ci restituisce proprio il frammento rubato alla storia di Lang, l’anello mancante in cui un pescatore sfortunato aggancia all’amo il cadavere della donna, uccisa dal reverendo e lasciata affondare, e noi quel corpo lo scopriamo con lui. I suoi lunghi capelli fluttuanti sul fondo come alghe – chiaramente debitori di quel ciuffo sfuggito al sacco di Lang – ne incorniciano il volto livido e ci raccontano che, ammazzata o no che sia stata, solo la morte ci restituisce la pace e il silenzio, e per quella, adesso, noi peccatori dobbiamo pregare, ed esserle grati.

*Ancora un punto di incontro, ma occasionale. Nell’ultima scena del film di Lang, vediamo il manoscritto a cui Byrne stava lavorando e in cui, sfacciatamente, trasfigura narrativamente l’omicidio della ragazza. Il manoscritto porta questo titolo: Death by the River, la morte in riva al fiume.

sabato 27 marzo 2021

coraggio

Ieri sera stavo vedendo questo film, La strada scarlatta di Fritz Lang, 1945, rifacimento americano di La cagna di Jean Renoir. Nel film Edward J. Robinson, pittore dilettante senza fortuna, viene raggirato da una coppia di malviventi i quali riescono a vendere i suoi quadri a una prestigiosa galleria, presentandoli come opera della donna del gruppo, l’avvenente Joan Bennett. Il pittore, scoperta la cosa, non si arrabbia, anzi le dice: «È una fortuna questa, se mi fossi presentato io alla galleria, non mi avrebbe dato retta nessuno, non avrei venduto nulla. Invece grazie a te, adesso so di avere talento». Questa scena tremenda/patetica mi ha fatto pensare a due cose. Prima cosa, assai elementare, che nell’arte, proprio come per la vendita porta a porta degli aspirapolvere, è molto vero che il talento arriva prima se ti presenti meglio. E poi, per estensione (dovuta alla lettura di Di Ruscio), che a molti pare quasi avventurosa questa storia dell’autore che viene riscoperto tardi, o addirittura post mortem, la vedono come qualcosa di avvincente nella sua biografia di maledetto e di incompreso che stava lì ad aspettare noi, proprio noi, che siamo invece arrivati dopo, per riscattarlo con il nostro amore postumo. Invece è orribile, spaventosa. Pensate all’enorme spreco di energie creative di una mente non sollecitata da un riscontro, quante opere ci siamo persi perché un artista pensava che non valesse più la pena provarci. Occorre un coraggio straordinario per continuare a crederci, per vivere tutta la propria vita col dubbio di avere o no talento, senza una parola di conforto, soli come cani, con la gente intorno che fa finta di non vederti, ti evita se non gli servi, ti evita anche solo per non dirti che ne pensa del tuo lavoro (e questo lo so, perché io per primo a volte non ce la faccio a dare una risposta a tutti). Non è vero che il tempo è galantuomo, succede solo per alcuni fortunati. Ma per ciascuno di loro che ora si prende il nostro amore, ce n’è un altro da qualche parte, nostro contemporaneo, che vive e respira insieme a noi, al quale stiamo negando la nostra attenzione, volutamente o distrattamente che sia, in attesa che se il suo carico lo pigli qualcun altro.