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giovedì 1 agosto 2024

chi cambierà il mondo?

KUHLE WAMPE: O A CHI APPARTIENE IL MONDO? è un altro film pochissimo conosciuto in Italia, ed è uno dei capolavori del cinema proletario tedesco. Girato nel 1932 da Slatan Dodow col fortissimo coinvolgimento di Bertolt Brecht, che firma la sceneggiatura, è un film che parla di un tema tanto attuale negli anni Trenta del secolo scorso, all’indomani della crisi del ‘29, quanto lo è ancora oggi, a un secolo di distanza: la mancanza di lavoro. Per la sua dichiarata denuncia dei meccanismi speculativi che impoverivano e sfruttavano a fini politici la popolazione affamata, il film venne censurato in patria dai nazisti, poi distrutto e restaurato attraverso alcune copie circolate all’estero. Suddiviso idealmente in cinque parti, più o meno autonome, appare particolarmente coinvolgente la prima, in cui il regista dimostra di aver assimilato l’estetica del cinema russo: un ragazzo cerca lavoro, ma nonostante passi le sue giornate girando come un forsennato per Berlino (in bicicletta, sulle musiche bellissime di Hanns Eisler) non ne trova uno: rientrato, rimproverato persino in famiglia di non impegnarsi abbastanza e incolpato del fatto che presto verranno tutti sfrattati per colpa sua, si suicida gettandosi dalla finestra, al che una vicina commenta “un disoccupato di meno”. A questa parte, quasi completamente priva di dialoghi, si contrappone l’ultima, tutta parlata e girata in metropolitana, dove un gruppo di socialisti, fra cui la sorella del ragazzo morto – interpretata da Hertha Thiele, già protagonista di Ragazze in uniforme, altro grande film di denuncia – dopo aver partecipato a una manifestazione di protesta, tornano a casa in un vagone gremito all’inverosimile. I corpi dei borghesi e dei manifestanti sono addossati l’uno all’altro e non c’è possibilità di azione, solo primi piani e dialoghi. A partire dalla lettura di un articolo di giornale che descrive una crisi del caffè in Brasile, comincia una lunga discussione, di carattere tipicamente brechtiano, sulle manovre speculative che usando questa crisi all’apparenza lontanissima come scusa porteranno ad affamare ancora di più il popolo tedesco. I pareri sono divergenti. A un certo punto un borghese, interrogato da un amico su cosa ne pensa, dice che non potranno certo essere loro due a cambiare il mondo, ma allora, ci si chiede tutti, chi sarà a cambiare il mondo? – Quelli a cui non piace, risponde una ragazza socialista sul finale.
 



sabato 16 dicembre 2023

l'arte della sopravvivenza

Apro a caso questo libro strano, Artisti della sopravvivenza (Einaudi, 2022) di Hans Magnus Enzensberger, che è una serie di caustici ritrattini di 60 scrittori del 900, molti dei quali assurti a miti con o loro malgrado, a cui Enzensberger spezza le gambe senza pietà. Prima ancora che scrittori, dice lui, sono stati uomini e donne, e in quanto uomini e donne soggetti alle leggi della sopravvivenza, e a volte della vanità, spesso e volentieri sono venuti a compromessi col potere, lo stesso potere a cui poi nei loro libri si opponevano. Apro a caso e trovo due ritrattini uno accanto all'altro, quello di Curzio Malaparte e quello di Bertolt Brecht. E mi fa sorridere leggere cosa ne scrive: che tanto ha imparato da Brecht di cui rispetta immensamente il talento, il genio poetico, la lungimiranza politica, per quanto fosse un uomo infame, uno sfruttatore sul lavoro, uno a cui il comunismo aveva messo i paraocchi verso lo stalinismo, e per di più uno che puzzava; quanto ritiene Malaparte uno scrittore sopravvalutato e politicamente senza capo né coda, un bugiardo senza vergogna e senza paura, un voltagabbana da romanzo d'appendice, eppure proprio per questo suo non appartenere ad altri che a se stesso, si vede (e si vede bene) che a Enzensberger Malaparte, il fascistissimo Malaparte, stava simpatico, assai più simpatico del maestro Brecht. Dove non arriva il genio artistico, arriva sempre l'arte della sopravvivenza.

sabato 18 marzo 2023

brecht ha scritto anche brutte poesie

Va detto che Brecht, che spesso viene citato come poeta della bruciante ragione e della lotta a qualsiasi potere, ha scritto anche brutte poesie. Ad esempio, a metà di quel capolavoro che è "Poesie da Svendborg", suo ultimo libro di versi pubblicato in vita (e tradotto in Italia da Franco Fortini), c'è una lunga poesia dedicata a Lenin appena morto in cui si invoca Lenin chiedendogli di ritornare subito in vita per combattere tutti gli "oppressori del mondo". Già allora doveva suonare retorica, ma letta oggi mette addirittura in imbarazzo. Soprattutto se si pensa che Brecht non era l'ultimo scemo di guerra, né ignaro delle contraddizioni di Lenin nella gestione della rivoluzione russa, contraddizioni che pure aveva evidenziato Rosa Luxemburg a cui Brecht era legato tanto da dedicare anche a lei, con molta meno retorica e più sentimento, ben due epitaffi. Le vie del poeta sono spesso oscure, e ancora mi chiedo perché la scrisse e, ancora di più, perché la pubblicò, eppure... eppure la scrisse e la pubblicò. Evidentemente serviva all'architettura del libro. Io però mi sono immaginato Brodskij che la leggeva col disgusto dell'esiliato (lo stesso disgusto che probabilmente aveva vissuto anche Brecht scacciato dalla Germania dell'imbianchino Hitler) e subito dopo esprimeva la sua celebre stroncatura secondo cui Brecht non era un poeta. Come dargli torto, dal suo punto di vista?

venerdì 4 marzo 2022

les carabiniers

Ho appena finito di vedere quello che, almeno per i miei gusti, è uno dei più bei film di Godard dei Sessanta, l’assai sottovalutato Les Carabiniers del 1963. Realizzato in appena tre settimane, al contrario di altri suoi film ha una trama solida, probabilmente perché adattato da un testo teatrale insieme a Roberto Rossellini e Jean Gruault. Girato in un efficace bianco e nero sporco, il film è chiaramente debitore tanto di Brecht, soprattutto per l’uso delle didascalie, quanto di certo cinema neorealista e per certi versi ricorda il primo Pasolini. Non ha però una trasposizione in italiano – si può vederlo solo in francese coi sottotitoli – perché l’arma dei Carabinieri all’epoca si sentì offesa dall’adattamento di Rossellini e da come si vedevano rappresentati. Una cosa simile era già capitata cinque anni prima con La grande guerra di Monicelli, che ha qualcosa di simile nel soggetto, quando l’esercito si ritenne offeso dall’immagine che se ne dava e pretese un riscatto finale dei due protagonisti. Ma nemmeno in Francia il film andò bene, tanto che Godard corse ai ripari girando immediatamente Il disprezzo attraverso cui riprese quota al botteghino mostrando il culo della Bardot, insieme a quel genio di Fritz Lang e a Villa Malaparte. Di cosa parla il film di Godard? Di due poveracci che vivono nelle baracche con le loro compagne e vengono arruolati dai carabinieri (fucilieri) del re con la promessa di potersi facilmente arricchire in guerra, attraverso il saccheggio. Quando vanno in guerra uccidono, stuprano, rapinano senza il minimo rimorso, ma quando tornano a casa sono più poveri di prima. Allo scoppio di una rivoluzione vengono ammazzati, proprio dai carabinieri, per ordine del re. Rispetto a quello di Monicelli in questo caso non c’è nessuna maturazione o riscatto personale: i due protagonisti sono degli imbecilli amorali che non solo vengono abbruttiti dalla guerra, ma muoiono senza nemmeno capire il male che hanno fatto. Ragion per cui il film all’epoca venne letteralmente stroncato dalla critica che rinfacciò a Godard – ingiustamente – di aver semplificato la guerra e per questo offeso le sue vittime. Il pubblico, in ogni caso, preferì Il disprezzo.

giovedì 15 aprile 2021

il testamento del dr. mabuse

Il testamento del dr. Mabuse del 1933 è stato il secondo film sonoro e l’ultimo film girato in Germania, prima dell’esilio, da Fritz Lang. Se ne possono trovare due versioni in rete: quella definita “francese” perché uscita in Francia negli anni ’30 con un taglio di circa mezz’ora sulle due ore originali (la qualità video è pessima, ma è doppiata in italiano: fra le altre si sente la voce di Gino Cervi dire: «Non vorrai rinnegare un buon camerata perché è stato pescato»), e quella “originale”, restaurata di recente nella sua interezza (bellissima come qualità video, ma in tedesco con sottotitoli in inglese o spagnolo). Il film non arriva alla bellezza dei suoi predecessori – con Il dr. Mabuse sopra tutti gli altri – ma appartiene ancora, sotto ogni aspetto formale, alla produzione altissima di Lang; il quale, gli va riconosciuto, film brutti non ne ha mai fatti. Dal punto di vista della trama, forse la cosa più notevole è la presenza di un particolare personaggio, il commissario Karl Lohmann (interpretato da Otto Wernicke), il quale era già stato fra i protagonisti del precedente M. il mostro di Düsseldorf del 1931. È la prima volta questa, ma non l’ultima, che Lang utilizza lo stesso personaggio o attore in due film distinti, per creare un filo intertestuale fra le sue opere. In questa maniera cosa fa? Usando il commissario come punto di incontro meta-narrativo, inserisce nella stessa trama due diversi paesaggi/plot narrativi e finisce per farli confondere: sia quello del dr. Mabuse sia quello di M. hanno al loro centro il vivace sottobosco criminale che sembra contaminare – col piglio brechtiano di una vera e propria epica dei bassifondi – ogni singolo aspetto sociale della Germania dell’epoca. Non solo, a predominare sulle bande che fanno il bello e cattivo tempo, fino al punto di istituire un vero e proprio tribunale criminale, sono lo spietato Schranker (in M.) è il dr. Baum (nel Testamento) il quale, proprio come il dr. Mabuse, è completamente pazzo. Non per nulla gli ultimi film di Lang non piacquero ai nazisti. Ancora, per quanto astuto sia, in entrambi i casi il commissario Lohmann riesce a sgominare le varie bande e vincere la sua sfida col male non in virtù del suo particolare talento, ma per un puro semplice caso: è la fortuna, ci dice Lang, e non la forza della Giustizia ad aiutare i buoni del mondo. E comunque, anche se i cattivi vengono presi, i crimini perpetrati rimarranno insanabili. «Chi ci ridarà i nostri bambini?» chiedono le madri vittime della furia omicida di M. alla fine del film. E lo stesso commissario Lohmann, in un atto di resa al caos che ha preso piede di fronte ai suoi occhi, commenta sconsolato l’arresto di Baum: «Non c’è più nulla qui che possa fare la giustizia umana», invocando quindi una forza più alta, sovraumana, che possa arginare il disastro. In questo modo il suo personaggio anticipa, nella sua consapevole impotenza, i poliziotti proposti alcuni anni dopo da Friedrich Dürrenmatt, in titoli come Il giudice e il suo boia o La promessa. Mentre lo stesso Lang chiuderà definitivamente i conti col dr. Mabuse circa trent’anni dopo, al suo ritorno in Germania.

sabato 20 febbraio 2021

opera

Guardo Bersani in TV che per affrontare un discorso cita, metaforicamente, alcune opere del repertorio operistico. Dieci minuti dopo arriva Maria Giovanna Maglie che commenta dicendo che di quello che ha detto Bersani ha capito una parola su cinque, a causa proprio di quelle citazioni, e confonde anche un titolo (parla di Don Giovanni invece del Barbiere di Siviglia). Ecco, oggi ci si stupiva che la Meloni citasse Brecht. Il problema non è la Meloni che cita il poeta Brecht, il problema è che dietro la Meloni ci sono centinaia di persone come la Maglie – ma ce ne sono a centinaia anche a sinistra – che a teatro non ci vanno, lo considerano una cosa astrusa, e l’hanno condannato alla chiusura ben prima della pandemia.

giovedì 24 settembre 2020

agli occhi di quelli che verranno

Noi, che a distanza di sicurezza
ci commuoviamo nei cinema
di fronte ai film hollywoodiani
che si dolgono ogni anno per la sorte
crudele degli schiavi e il dolore
che a gennaio ci stringe nel cordoglio civile
per non dimenticare. Noi
che facciamo mai abbastanza ma indossiamo
ad ogni funerale abito bianco
e guanti immacolati, noi che discutiamo
ore e ore intorno a un niente di cifre
per non dire che son vite
che hanno un nome.
Noi, così spietati nel vaglio della storia
degli altri: noi in quest’ora nudi
agli occhi di quelli che verranno
siamo uguali, né migliori né peggiori
di chi ci ha preceduti. E siamo noi i nazisti
siamo i turchi, siamo noi i negrieri
e i Cortés imbellettati, siamo ebrei
sganciati in Palestina, siamo noi
i più bravi a dirci altrove. Non importa
se ci reputiamo innocenti o sani
se ci dichiariamo impotenti, contrari
per il solo fatto d’essere vissuti in mezzo agli altri
e non aver gridato con più forza
non siamo noi più alti di chi allora
messi al vaglio della storia
non seppero convincere i giurati.
Diremo come loro: Non sapevo, non volevo.
O negheremo che fosse tutto vero.
Io non potevo immaginare: la menzogna suprema.
Nessuno mai, di quelli
che tanto ci assomiglia nel futuro
ci crederà innocenti o degni di perdono.
Agli occhi di quelli che verranno
non saremo assolti
quando ad occhi chiusi invocheremo
la loro comprensione.

sabato 23 maggio 2020

la missione di un poeta


Rileggevo la poesia di Luigi Di Ruscio da un verso della quale trae spunto il titolo della nostra raccolta su poesia e lavoro La nostra classe sepolta, a cura di Valeria Raimondi (Pietre Vive, 2019). La poesia si intitola Per mia figlia ed è una bellissima lettera-poesia contenuta in Poesie scelte 1953-2010, a cura di Massimo Gezzi (Marcos y Marcos, 2019). Come tutte le poesie di Di Ruscio ha avuto una lunga gestazione e diverse e significative varianti. All’origine, nella versione contenuta in Enunciati (1993) e intitolata Per Caterina Di Ruscio scrive: «…noi che viviamo anche per rappresentare tutti quelli che sono morti/ e tutti quelli che verranno e sino a quando rimarrà la resistenza di uno solo/ la sconfitta non è ancora avvenuta/ non la rosa sepolta ma i comunisti massacrati e sepolti/ tutto deve essere ingoiato anche quello che profondamente disprezzo…». La poesia verrà poi rielaborata in chiave più spigolosa ed espressiva nel suo ultimo libro, ma aprendola nel suo significato ad un abbraccio universale: «…noi che viviamo anche per rappresentare tutti quelli che sono morti/ sino a che rimarrà uno solo la sconfitta non è ancora avvenuta/ sino a quanto rimarranno le nostre pagine/ non la rosa sepolta ma la nostra classe sepolta/ siamo nel caos prima della creazione del verbo…». Confesso che leggendo prima l’ultima versione non avevo colto subito il nesso assai evidente con Brecht, attraverso il celebre Epitaffio 1919 e più sottilmente in Epitaffio Luxemburg scritti entrambi per Rosa Luxemburg, dove Brecht nel primo dice: «Anche Rosa la rossa se n’è andata./ Ma dov’è sepolta chi lo sa./ I ricchi dal mondo l’hanno scacciata/ ché ha detto ai poveri la Verità» e nel secondo: «Qui è sepolta/ Rosa Luxemburg» intendendo proprio “qui”, fra queste righe. Da cui l’immagine della rosa sepolta: uccisa la Luxemburg il suo corpo non fu mai ritrovato e venne sostituito nella tomba con quello di un’altra donna: estrema offesa persino alla sua memoria. Nella sua poesia alla figlia, Di Ruscio accoglie in toto lo spirito e la volontà della Luxemburg: sostituendo a «comunisti» la parola «classe» sposta l’asse della lotta e della sconfitta dal partito al lavoro: quindi con un ritorno all’origine stessa del partito, alle sue ragioni, che nascono in reazione ai bisogni della classe. In questo modo, da una parte lascia in eredità alla figlia un’idea di lotta politica, che sia pura, integra, irriducibile, ma ancora praticabile e reale. Dall’altra, lì dove scrive «…sino a quando rimarranno le nostre pagine... siamo nella creazione prima del caos…». le affida una missione. In quel passaggio Di Ruscio supera Brecht e direttamente al modello del suo Epitaffio, che è la Genesi. Lì dove in Brecht Rosa Luxemburg, nel dispetto dei ricchi, viene scacciata dal mondo per aver mostrato la Verità ai poveri, cioè per essere stata per i poveri il serpente che li ha sottratti alla propria illusione di felicità, condannandoli alla propria infelicità di classe e alla lotta senza tregua, in Di Ruscio non solo Rosa ma tutti i sepolti e gli spariti della Terra troveranno rifugio, perché nelle sue pagine, nella sua scrittura, e nelle pagine e nella scrittura di «noi che rappresentiamo» tutti verranno salvati: «ebreo nella Germania nazista/ palestinese in Israele/ negro nel Sudafrica/ comunisti massacrati e sepolti». Per ognuno di loro ci sarà posto e memoria nelle nostre pagine, perché finché «ne rimarrà uno solo la sconfitta non è ancora avvenuta». E perché per loro, per tutti i sepolti della storia, solo nelle nostre pagine, nelle pagine di «noi che rappresentiamo» è data la possibilità di un nuovo inizio, di azzerare il tempo, ritornare all’attimo stesso della creazione, prima della storia, del caos, della luce da cui vennero fuori le tenebre. Alle nostre stesse ragioni. Che è, forse, la missione più alta che può darsi un poeta.

domenica 26 aprile 2020

quando un popolo canta

Ieri 25 aprile 2020 credo di aver sentito la mia Bella ciao preferita da molti anni a questa parte, nella versione cantata da Guccini con la voce tremante da vecchio, commovente nella sua purezza un po’ naif e insieme irriducibile. Guccini ne ha modificato il testo per attaccare, come fa da sempre, Berlusconi Salvini e i fasci della Meloni, e così cantando ha fatto incazzare la Meloni, ridando insomma alla canzone un senso politico che, devo dire la verità, mi sembra più divisivo che inclusivo: non il “25 è di tutti”, ma “tu no, tu non puoi, tu sei fuori”. Nella voce di Guccini non è più la canzone della grande festa popolare come spesso la viviamo, ma la viva testimonianza di qualcosa di irrisolto nella nostra identità di popolo. Io me la vivo spesso come un grande dubbio questa cosa, come una contraddizione: ma “se tu no, tu non puoi” mi chiedo, perché queste persone dovrebbero festeggiare, come rimproveriamo loro di non fare, una festa dove non sono gradite? Abbiamo fatto abbastanza per coinvolgerle, oppure no, non le volevamo proprio, perché ci faceva comodo avere un nemico che rafforzasse le nostre convinzioni? Io non lo so, e per dirla come Brecht: “solo i ciechi parlano di soluzioni, ma io ci vedo bene e non ho speranze per nessuno”. So che l’Italia che è venuta fuori dalla guerra non è più la loro, eppure è anche la loro perché un sacco di cose non sono state mai dette né risolte, perché come diceva Pasolini avremmo dovuto chiedere, avremmo dovuto voler sapere di più di quel che ci hanno detto, ma sapere non conveniva a nessuno, perché i puri, i veri puri di questa nazione, coloro che l’hanno fondata e la cui memoria inneggiamo il 25 aprile, sono stati una manciata, un “piatto di grano”, tutti gli altri bene o male da qualche parte sono saliti sul carro dei vincitori e hanno accettato dei compromessi per mantenersi vivi. Ieri però, nonostante la clausura, si respirava una bella atmosfera in questa Italia. Sospetto che per una volta sia stato merito del coronavirus, perché forse, se ci fosse stato il nulla osta, molta gente semplicemente sarebbe andata al mare a godersela la libertà invece di cantarla, ma che importa. Alla fine hanno cantato tutti, così la sera del 25 aprile del 2020 è arrivata la notizia della morte di Kim Jong-un e ho pensato che forse è vero, quando un popolo canta tutto insieme da qualche parte muore un dittatore.

lunedì 6 gennaio 2020

il signor k. e la coerenza

Un giorno il signor K. propose a uno dei suoi amici il seguente quesito: – Frequento da poco un tale che abita di fronte a me. Ora non ho più voglia di frequentarlo; mi manca però motivo non solo per continuare la relazione ma anche per troncarla. Adesso ho scoperto che di recente ha acquistato la casetta che finora teneva in affitto, e ha fatto immediatamente abbattere un susino, che gli toglieva la luce davanti alla finestra, benché le susine fossero solo mezze mature. Non potrebbe essere questo un motivo per rompere con lui, almeno esteriormente o almeno interiormente? 
Pochi giorni dopo il signor K. raccontò al suo amico: – Non frequento più quel tale, ora. Pensi un po’! Già da mesi aveva chiesto al suo ex padrone di casa che fosse abbattuto quell’albero perché gli toglieva la luce. Quello però non aveva voluto farlo per non perdere i frutti. E ora che la casa è passata di sua proprietà ha fatto veramente abbattere l’albero ancora carico di frutti acerbi! Ho rotto ogni rapporto con lui a causa della sua condotta incoerente. 

(Bertolt Brecht, Storie del signor Keuner, trad. C.Cases e E. Ganni, Einaudi, 2008)

martedì 17 dicembre 2019

brechtiana

Perché faccio quel che faccio e
perché sono ciò che sono?

Perché sono vissuto in questo posto
dove la risposta a ogni domanda è
sempre stata: A me, che me ne fotte?

Oppure di riflesso (con tono accusativo):
A te che te ne fotte delle cose mie?

Tutto è vano e dolce ma senza soluzione
dove l’unico problema è far domande.

Fin al punto che ti resta di farle a te stesso
e arrivare a odiarti presto se rispondi.

giovedì 6 giugno 2019

le cose

– Quando sono in accordo con le cose, – disse il signor Keuner, – non sono io a capire le cose, sono le cose che capiscono me. 

(Bertolt Brecht, Storie del Signor Keuner, Einaudi 2008)

mercoledì 13 febbraio 2019

discorso di lino sul sole

Mi lascio prendere dal sole.
Stanotte non ce l’ho fatta a prender sonno, tanto rumoreggiava la tempesta.
Oggi il sole giallo splende tra i suoi rami spogli.
Mi metto tra parentesi e faccio spazio all’immenso.
Non è stata un’inezia levarsi così in alto
tra i casermoni in affitto, ché chi ti parla è anch’egli affetto
da questa forma di miopia e cerca sì di liberarsene
difetto congenito alla vista di un io fortissimo implacabile
che confonde di continuo le acque anche piovane
e la poesia.
Parliamo in questa stanza a cuore aperto, facciamolo cantare il cuore
per le ombre. Ché un cuore deve battere, agitarsi. Un cuore
deve vivere e convivere coi lutti.
Con le sue contraddizioni in versi.
Perché ci son soltanto due tipi di poesia: una che ti chiede e l’altra
che qualcosa vuole darti. Ed è difficile distinguerle.
Devi domandarti: la tua poesia mi sta chiedendo attenzione
o ha solo voglia di parlare
a cuore aperto con me?
Ma ricorda nessuno è perfetto, nemmeno un maestro
e ognuno è debole secondo il caso.
Anch’io ho bisogno di non parlare con gli ulivi
ma di mettermi in ascolto della loro parola.
Arrendevolezza. Umiltà. Qualche volta e non sempre ci riesco.
Sii paziente. (Ride). Ascolta ancora un poco.
È un impegno che dura da una vita
liberarsi da questa forma di miopia
che può portarmi finalmente a poter dire:
mi lascio prendere dal sole. E così via...


In Discorso di Lino sul sole sono innestati versi sparsi di Discorso mattutino all’albero Griehn (Morgendliche Rede an den Baum Griehn) di Bertolt Brecht, nella traduzione di Anna Maria Curci pubblicata su Poetarum Silva il 1 aprile 2012, insieme a parole scritte da Lino Angiuli in una e-mail datata 8 febbraio 2019.

giovedì 19 novembre 2015

alla guerra, alla guerra!

Lo sapete, vero, che a furia di dire che siamo già in guerra poi alle fine in guerra ci finiamo per davvero? Nel senso che una cosa è dirla e una cosa è farla, non è la stessa cosa. Io per me dico che noi in guerra non ci siamo ancora (io almeno, in base ai miei valori, non sono in guerra con nessuno e non credo di essere il solo) ma credo che è in atto una chiara volontà mediatica (e politica e economica) di inculcarcela la guerra, di parlarcene e farcene parlare a tal punto che poi la guerra ci sembrerà una conseguenza inevitabile. Quasi tutto si può evitare, se si vuole, soprattutto una cosa grossa come una guerra. Bisogna vedere se e quanto si vuole. Io per me, lo confesso, quando ho saputo dei morti di Parigi, la prima cosa che ho pensato è stata: ecco, ci stanno apparecchiando una guerra. E non ero tanto addolorato, quanto arrabbiato, e non con l’Isis. Poi sarò cinico in queste cose, ma per me vale ciò che scrive Bertold Brecht in quella poesia citata da Gino Strada, lungimirante, il giorno dopo gli attentati: in guerra, sia dalla parte dei vinti che dalla parte dei vincitori, quelli a soffrire sono i poveri. Ancora più, aggiungo, degli stupidi.

domenica 15 novembre 2015

una poesia di bertolt brecht (sempre utile ai tempi che corrono)

A QUELLI CHE VERRANNO

Davvero, vivo in tempi bui!
La parola più innocente è folle. Una fronte distesa
indica insensibilità. Colui che ride
probabilmente non ha ancora ricevuto
la terribile notizia.

Che tempi sono questi in cui
un discorso sugli alberi è quasi un reato
perché comprende il tacere su così tanti reati!
Quel tipo che attraversa tranquillo la strada
è forse meno raggiungibile dai suoi amici
che soffrono?

È vero: mi guadagno ancora da vivere
ma credetemi: è un caso. Niente
di ciò che faccio mi dà diritto a sfamarmi.
Per caso sono stato risparmiato. (E quando cesserà la mia fortuna
sarò perduto).

Mi dicono: mangia e bevi! Accontentati perché ne hai!
Ma come posso mangiare e bere se
ciò che mangio lo strappo a chi ha fame, e
il mio bicchiere d’acqua manca a chi muore di sete?
Eppure mangio e bevo.

Mi piacerebbe anche essere saggio.
Nei vecchi libri scrivono cosa vuol dire essere saggio:
tenersi fuori dai guai del mondo e passare
il nostro breve tempo senza paura.
Anche fare a meno della violenza
ripagare il male con il bene
non esaudire i propri desideri ma dimenticare,
tutto questo è ritenuto saggio.
Tutto questo non mi riesce:
davvero, vivo in tempi bui!

[…]

Voi, che emergerete dalla marea
nella quale noi siamo annegati
ricordate
quando parlerete delle nostre debolezze
anche i tempi bui
dai quali voi siete scampati.

Camminavamo, cambiando più spesso i paesi delle scarpe,
attraverso le guerre di classe, disperati
quando c’era solo ingiustizia e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:
anche l’odio verso la bassezza
distorce i tratti del volto.
Anche l’ira per le ingiustizie
rende rauca la voce. Ah, noi
che volevamo preparare il terreno per la gentilezza
noi non potevamo essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuto il momento
in cui l’uomo sarà amico dell’uomo
pensate a noi
con indulgenza.