Per chi pratica il mercato dell’arte,
non è raro imbattersi in categorie di comodo, e di massima, secondo cui o un’opera
è un capolavoro oppure non è niente, non vale la pena non solo acquistarla, ma nemmeno
guardarla. Eppure il mondo dell’arte vive soprattutto di fallimenti, più o meno
spettacolari, ed è pieno di splendidi lavori minori, che non solo hanno grande dignità
in se stessi, ma sono catalizzatori di idee e suggestioni non meno dei
capolavori. Perché non ci sono camere a tenuta stagna o classi differenziate
nel linguaggio dell’arte, tutto parla a tutto, ogni cosa bisbiglia e suggerisce,
ai sensi di un autore. Ci pensavo ieri sera, guardando proprio un film “minore”
di Fritz Lang, House by the River, del 1950 (passato in Italia come Bassa marea),
uno dei classici film “di cassetta” dell’epoca, di cui Lang espatriato a
Hollywood era maestro. Di cosa parla? Byrne, scrittore fallito e che beve –
tutti i falliti del primo cinema noir americano sono scrittori alcolizzati, sui
modelli “reali” di Chandler e Fitzgerald – prova a sedurre la giovane cameriera,
la ammazza accidentalmente quando lei si rifiuta, quindi ne nasconde il cadavere
in un sacco e lo getta nel fiume che scorre vicino casa. Poi, nel classico
schema del cinema langhiano, tutto basato sui concetti di “colpa” e di “destino”,
viene preso da una sorta di demone e, invece di insabbiare tutto, si lancia in una
sorta di gioco in cui sfida di continuo l’opinione pubblica a scoprirlo,
disseminando indizi e dichiarazioni che lo accusano palesemente, finché,
scoperto per davvero, prova a uccidere suo fratello e la sua stessa moglie e
resta ucciso a sua volta. La scena più cupa e avvincente del film è quella in
cui Byrne si accorge che il cadavere della ragazza è riemerso dal fondale e viene
spinto dalle correnti lungo il fiume; comincia così a inseguirlo per tutta la
notte su una barca, a un certo punto prova ad arpionarlo senza riuscirci, ma
afferrando il sacco con un gancio, lo buca e in quel momento i capelli della
ragazza fuoriescono dallo strappo e cominciano a fluttuare dolcemente nell’acqua
torbida. Magari è tutta una mia suggestione, ma mentre guardavo questa scena, ho
immaginato che fra gli spettatori del film ci fosse Charles Laughton, attore nella
cui testa, cinque anni dopo, proprio quella scena “pompata” fino all’inverosimile
e impregnata di espressionismo tedesco, esploderà portandolo a produrre e a girare
il suo primo e ultimo film, The Night of the Hunter (passato in Italia come La
morte corre sul fiume)* basato su un racconto del 1953 di Davis Grubb, con protagonista
Robert Mitchum nella parte di un assassino seriale che insegue, sotto la luna
piena, lungo un fiume, i figli di una delle sue vittime, sfuggiti alla sua folle
violenza. Trasfigurandolo nel linguaggio della favola, il film di Lang viene
smontato da Laughton in ogni suo elemento e rimontato scena per scena, immagine
per immagine, estremizzando ogni sua suggestione: lì dove l’eroe di Lang era un
marito fedifrago amorale, qui il reverendo di Laughton è un predicatore sessuofobico
che sposa donne sole per poi ammazzarle, entrambe le pellicole si basano sul
continuo gioco di specchi fra peccato e salvezza, sfida all’autorità e morte,
con il reverendo che alla fine viene quasi linciato dalla folla, proprio come
in Furia (1936) dello stesso Lang. Ma più di tutte le altre, la scena,
macabra e affascinante, che fa da perno fra i due film, è proprio quella dei
capelli. Nel primo film vediamo quelli, ma nient’altro del corpo della vittima,
a un certo punto la polizia irrompe nella casa di Byrde annunciando il
ritrovamento del cadavere. Nel secondo film, invece, Laughton ci restituisce proprio
il frammento rubato alla storia di Lang, l’anello mancante in cui un pescatore sfortunato
aggancia all’amo il cadavere della donna, uccisa dal reverendo e lasciata
affondare, e noi quel corpo lo scopriamo con lui. I suoi lunghi capelli fluttuanti
sul fondo come alghe – chiaramente debitori di quel ciuffo sfuggito al sacco di
Lang – ne incorniciano il volto livido e ci raccontano che, ammazzata o no che
sia stata, solo la morte ci restituisce la pace e il silenzio, e per quella,
adesso, noi peccatori dobbiamo pregare, ed esserle grati.
*Ancora un punto di incontro, ma occasionale. Nell’ultima scena del film di Lang, vediamo il manoscritto a cui Byrne stava lavorando e in cui, sfacciatamente, trasfigura narrativamente l’omicidio della ragazza. Il manoscritto porta questo titolo: Death by the River, la morte in riva al fiume.
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