C’è, in entrambi i film, un’auto che corre nella notte. Una all’inizio, diretta dal passato verso un futuro disastroso coi titoli che scorrono al contrario sullo schermo, una alla fine, in fuga nel passato dal futuro peggiore possibile, sancito dalla parola Fin in chiusura. Su entrambe le auto ci sono due coppie, formate da una donna che ha appena perso tutto e viene salvata da un cinico investigatore venuto fuori, con le sue smargiassate da duro, da una storia di serie B. Nella prima auto la donna chiede all’altro se legge poesie e poi si risponde da sola, no che domanda sciocca. Nella seconda è stato proprio lui che poche ore prima le ha letto dei versi di Paul Éluard per risvegliarla dal tuo torpore affettivo. Sono coppie strane queste di fuggiaschi che parlano di poesia, irreali come tutte le creature letterarie. I due film sono Kiss Me Deadly di Robert Aldrich, del 1955 (lo stesso anno di The Night of the Hunter, altra anomalia del genere) e Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution di Jean-Luc Godard del 1965. Dieci anni precisi in cui un genere di consumo, il noir, che si pensava arrivato al suo esaurimento, si reinventa senza rinunciare a una sola briciola di se stesso, del proprio linguaggio, dei suoi tic e delle sue esagerazioni, anzi esasperando ancora di più ogni sua componente fino al parossismo estetico e narrativo per diventare neo-noir, manierismo. Molti biografi tendono a stabilire come date il 1958, anno di Touch of Evil di Orson Welles che chiude la stagione del noir classico e il 1967, anno di Point Blank di John Boorman che inaugura invece il neo-noir. Ma secondo me è fra queste due corse in auto che ogni cosa viene sconvolta e ricreata. Ci sono queste due auto che corrono verso il buio, verso la ricerca di una verità che, nella sua dichiarata inautenticità non può più soddisfarci: nel primo film è rappresentata da una scatola di piombo di cui non vediamo mai il contenuto, nel secondo gira e rigira intorno a una serie di incontri, chiacchierate, di dialoghi filosofici e di interrogatori, che non sono mai risolutivi. Né tale verità ci porterà alcun giovamento: e infatti nel primo film a vincere è una disperata vitalità, l’azione in se stessa, spesso puramente istintiva e priva di una logica o di uno scopo più alto, finalizzata com’è a mantenersi in vita; nel secondo, più romanticamente vince l’amore, che spesso è un amore triste perché non ha futuro. Il tutto intinto in un bianco e nero estremo, bruciato da fiammate luciferine di luce. C’è già, fra questi due poli, tutto il neo-noir.
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