Key Largo di John Huston, anno 1948 (passato in Italia come L’isola di corallo) è uno di quei film minori ma fondamentali che andrebbe visto almeno una volta nella vita. Basato su un testo teatrale di Maxwell Handerson, ma riscritto da capo a piedi dallo stesso Huston con Richard Brooks, si basa su una storia semplice: in un albergo di Key Largo – che è un’isola della Florida da cui si può facilmente raggiungere Cuba in barca – durante una tempesta tropicale si rifugiano il proprietario dell’albergo (Lionel Barrymore) e sua figlia acquisita (Lauren Bacall), un avventuriero reduce di guerra (Humphrey Bogart), una banda di criminali guidati dal gangster Johnny Rocco (Edward G. Robinson), il quale si è portato dietro una sua vecchia fiamma, l’alcolizzata Gaye Dawn (Claire Trevor), a cui si aggiungono, come comparse, un gruppo di indiani e i due sceriffi di zona. Durante la notte di tempesta la tensione cresce fino a generare una serie di contrasti. Fin qui la trama di un film non originale, ma solido, tutto basato sulla caratterizzazione dei personaggi e sul bellissimo bianco e nero opera di Karl Freund (Metropolis). Dove risiede, però, il fascino maggiore della pellicola? Da un punto di vista formale, nella continua sfida, lanciata da Huston, ai limiti della finzione cinematografica. Nel suo essere, per questo, una sorta di lavoro fondamentalmente postmoderno che, da una parte, innesta nella fiction schegge di cinema verità che si rifanno al suo mestiere di documentarista; dall’altra, nell’immersione in un gioco metatestuale che cuce insieme, su più livelli (dal pastiche alla parodia), una serie di citazioni prese da film precedenti, suoi e di altri, che anticipa quello che vent’anni dopo diventerà caratteristico del genere neo-noir. Non le indico tutte per non allungarmi e non creare eccessiva confusione, ma le più evidenti riguardano: 1) La presenza di Bogart e Bacall, qui alla loro quarta e ultima pellicola insieme; i due erano già stati protagonisti, nel 1946, di quelli che molti considerano il classico assoluto del genere, Il grande sonno di Howard Hawks, dove Bogart, nei panni di Philip Marlowe, viene chiamato da un vecchio generale in sedia a rotelle per salvare sua figlia minore da un ricattatore, innamorandosi della maggiore (Bacall); in Key Largo il proprietario dell’albergo è anch’egli in sedia a rotelle e vive con sua figlia che sembra provare, senza dichiararli, dei sentimenti per Bogart; 2) La presenza di Edward G. Robinson, una delle icone del film nero americano, già protagonista nel 1931 del capolavoro Piccolo Cesare di Mervyn LeRoy, basato sull’ascesa e caduta di un gangster durante il proibizionismo; in Key Largo Robinson riprende proprio quel personaggio, un gangster che sogna di tornare al proibizionismo, con gli stessi scatti, la volgarità, lo stesso fascino e la stessa crudeltà a cui poi – altro gioco di specchi da segnalare – si ispirerà Robert De Niro per il suo Al Capone ne Gli intoccabili di Brian De Palma (1987): nel film di De Palma c’è una scena in cui De Niro conversa mentre si fa fare la barba che è un ricalco quasi mimetico di un’identica scena nel film di Huston. 3) Bogart e Robinson avevano già lavorato insieme in un precedente film del 1938, The Amazing Dr. Clitterhouse (passato in Italia come Il sapore del delitto), commedia nera di Anatole Litvak su sceneggiatura proprio di Huston, in cui i ruoli erano invertiti – Bogart era il gangster feroce e Robinson il “matto” che provava a tenergli testa – e dove la protagonista femminile era Claire Trevor, femme fatale che ora, in Key Largo, ritorna come ex amante, sfiorita e invecchiata, di Robinson. Nella scena più bella di tutto il film, che valse proprio alla Trevor un Oscar come attrice non protagonista, Robinson/Rocco le chiede di cantare una canzone. Trevor/Dawn tentenna, non vuole, non si sente sicura, alla fine acconsente e canticchia a cappella, con voce incerta, un successo della vecchia Broadway, Moanin’ Low, che parla appunto di una donna la cui vita è stata devastata dalla presenza di un uomo brutale. Da una parte, questa scena può intendersi come il controcanto (disincantato) di un certo genere di personaggio alla Gilda. Dall’altra, è estremamente interessante perché si basa, in tanta finzione, su un artifizio che rovescia la medaglia: lì dove, in precedenza, tutte le attrici dei film di Hollywood si facevano doppiare da cantanti di professione, e così avrebbe voluto anche la Trevor, qui è proprio lei che canta, con la sua voce sottile, e stona. Huston sulle prime la convince dicendo che stanno facendo delle prove per le riprese successive, ma dopo che lei ha cantato dà buona la prima e monta nel film proprio quella prova canora così stentata, per ottenere quell’effetto patetico, drammatico: noi avvertiamo tutto il disagio di Gaye Dawn perché è il disagio reale della Trevor che si mette a nudo nelle sue carenze di artista, in un modo che non era mai stato concepito prima. 4) Questo però non è l’unico caso di incursione di cinema verità nella finzione del film. Mentre tutto l’albergo è ricostruito in studio, e le scene dell’uragano utilizzano filmati d’archivio, le scene in barca sono girate sulla vera barca di Bogart, provetto marinaio. Ancora, incastonata fra le altre, c’è una sotto-trama indipendente, che qui non esploro, sull’omicidio brutale e razzista di due indiani accusati di omicidio. Huston, proprio per questa sotto-trama, riprende un gruppo di veri indiani che, poco prima della tempesta, sbarcano sul molo dell’albergo. C’è un momento bellissimo, non filtrato da copione, in cui, sul finto molo del finto albergo una vera, vecchia indiana, si appoggia a Bogart e gli chiede una sigaretta. Le rughe della vecchia sono talmente reali da sollevarsi oltre il cielo dipinto sul fondale fino a bucare lo schermo.
Aggiungo, per completezza, che da un altro punto di vista squisitamente sociologico (ben approfondito da Peter Strempel in un suo articolo, The Key Largo hypothesis: Brooks and Huston set the noir context, che si può leggere in rete su medium.com, QUI), uno dei dialoghi più intensi e oscuri del film, quando i personaggi di Bogart e Robinson si incontrano e si confrontano per la prima volta, contiene molti riferimenti criptati, veri e propri atti di accusa verso il clima di intolleranza e di caccia alle streghe che stava nascendo a Hollywood proprio in quel periodo, e che avrebbe presto portato alla censura maccartista. Non a caso questo fu l’ultimo film di Huston con la Warner Bros. Di lì a poco tutti i protagonisti del film dovranno fare pubblica ammenda per le loro idee “sovversive”, come Bogart e Bacall, oppure, rifiutandosi di farle, verranno lentamente esautorati dal mondo cinematografico, come Robinson, o costretti all’esilio, come Huston che nel 1952 emigrerà per sempre in Irlanda.
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