Nell’ultimo anno ho conosciuto e regalato un mio libro a tre giovani aspiranti autori, a loro modo simpatici e alla mano, che mi venivano dietro perché sono un editore. Ho detto di no a tutti e tre: a una perché scrive poesie come se fossero testi di canzoni; a un’altra perché le sue sembravano dei pastiche molto studiati di poesie russe in traduzione; a un terzo perché mi pare ogni volta di leggere qualcosa a metà fra l’ultimo Zanzotto e Balestrini, qualcosa che non solo è già vecchio, ma è pure inutile. La prima ha fotografato il mio libro in tutte le maniere e posizioni possibili, dalla spiaggia al bagno di casa, o mentre strimpella la chitarra nelle sue improbabili storie, ma senza mai aprirlo una sola volta, nemmeno per curiosità di sapere che dico; il terzo, nato vintage, non ci prova nemmeno a fare storie e lo ha infilato in fondo alla libreria ringraziandomi, ma dicendo che prima ha molto altro da leggere e deve dunque finire tutti i classici del 900, io vengo dopo; la seconda, più intraprendente, reduce di millemila master in editoria senza sbocco, continua a chiedermi con insistenza se la voglio assumere, ma ogni volta che le chiedo impressioni del mio libro glissa per non dirmi apertamente che non le interesso come autore, ma solo come possibile padrone. Nessuno ha mostrato di avere il minimo interesse nemmeno all’idea di restituirmi pan per focaccia e fare a pezzi ciò che ho scritto con una sana stroncatura. Questo è per dire che anche a me tocca subire l’uguale destino di tanti, pubblicati e puniti dalla mancanza di risposta. Ma più semplicemente, ed è una forma di sfacciata onestà che riconosco a quei ragazzi e che mi manca, non gliene frega niente di chi gli sta attorno, o di quanto gli succede intorno se non sono loro il centro della scena, e questo da un po’ mi fa pensare, con la mia solita sfiducia, che c’è ben poco da fare per la poesia di domani, perché più vado e più credo che quei tre non rappresentino dei casi isolati ma la regola generale che cresce e si afferma. Che pubblica comunque, con o senza te. Ci sono, ovviamente, delle eccezioni. Ma l’editoria – non la letteratura – per sopravvivere deve appoggiarsi alla regola, non alle eccezioni. I soldi si fanno sulla regola, o trasformando l’eccezione in regola che vende, quindi sminuendo e “addestrando” l’eccezione per ridurla a una formula che piace, che è di per sé una cosa orrenda, ed è il mercato. A cui non so più oppormi. C’è stato sì un momento, poco prima del Covid, in cui ho avuto l’impressione che qualcosa stesse cambiando in meglio, che ci fosse una ripresa, un nuovo orgoglio, un’attenzione nuova, poi c’è stato quello e il processo si è interrotto o involuto, il mondo si è abbruttito e delle porte si sono chiuse irrimediabilmente, un velo di stanchezza ci ha avvolto tutti quanti con un calo di attenzione o di interesse anche verso noi stessi e verso l’idea stessa di poesia che ci portiamo dietro. È una sensazione che avverto a pelle e non sui dati, e potrei anche sbagliarmi, magari sono io che non mi trovo più a mio agio con gli altri, ma io la sento così quest’epoca, la vivo attraverso chi mi scrive, e me ne sento contagiato. Tutto ciò che tocco mi fa male.
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