Sono, ahimè, 25 anni oggi che è morto Dario Bellezza. Dico ahimè soprattutto perché per me la scoperta di Bellezza coincide con i miei anni di formazione, e quindi con la scoperta della vita. L’ho amato e lo celebro, nel mio piccolo, con la poesia (inedita in rete, mi pare, ma perfetta per i tempi) che chiude il primo libro suo che ho comperato, Poesie 1971-1996 (Mondadori). In tal senso, la prima vera poesia che ho amato è stata quella di Ungaretti, ma il primo poeta in carne e ossa è stato Dario Bellezza: da allora, nella mia testa, l’immagine di un poeta coincide fortemente con la sua. Bellezza era bello, cecato, bohémien, gattofilo, seduttore, pornografo, classicista e scroccone, tutte cose che nella vita ho provato a essere anch’io con minore classe e fortuna. Paradossalmente, l’ho visto in TV, al Maurizio Costanzo Show – e a Costanzo, nonostante molti oggi lo disdegnino, vanno riconosciuti questo e altri incontri fondamentali per la mia generazione, come quello leggendario con Carmelo Bene. Ecco quindi la poesia che chiude il libro. Viva la vita, la tua vita, angelo.
Di nuovo ecco la ripetizione:
non so a chi potrà interessare, detto
in prosa, dopo aver fornicato con pentole
e fornelli. Sono diventato un perfetto
casalingo, chiuso in casa, sognando
Dio o il misticismo. Scorro le novità
librarie: Teresa D’Avila, San Giovanni
della Croce: ma la mia croce qual è?
I gatti ridono sornioni, dentro
una cassetta, la loro casetta:
i giochi di parole mi stuccano, le rime
mi inquietano come muse spente e annegate:
la vita passa davanti alla stufa
di ghisa, eroina delle mie giornate.
Non so abbandonarmi al flusso del tempo:
la poesia è tutta digerita. Fuori
febbraio annuncia primavera;
partirò per la Sicilia, la Poesia
resterà unica padrona di Roma.
Telefonando avrò notizie,
scongiurerò eventi, crescite e rinascite,
sempre di meno in questo mondo infetto.
(Dario Bellezza, da Proclama sul fascino, 1996)
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