mercoledì 3 marzo 2021

il solito pezzo pieno di domande senza risposta

L’editoriale pubblicato oggi su Poesia del nostro tempo mi ha scatenato, come sempre riescono a fare, una serie di pensieri assai poco rasserenati. La redazione ha contattato una settantina di librerie per inserirle in una mappatura delle librerie che vendono poesia in Italia e nessuna ha risposto all’appello. Cosa significa? Che le librerie italiane – si parla sempre per grandi numeri qui, e non per singoli casi – non sono interessate alla pubblicità derivata dalla poesia, sia pure promossa da un sito che ha una certa visibilità, perché non la vendono o ne vendono talmente poca di poesia, ai loro lettori abituali (persone in carne ed ossa che comprano libri) che non hanno interesse a promuovere e promuoversi, perché anche promuoversi richiede tempo, e il tempo è denaro. Aggiungo una cosa a riprova di questo dato: di recente mi è arrivato, dal mio distributore, il bollettino coi libri più richiesti (che serve a orientarsi sui generi che vanno per la maggiore): nel bollettino non c’è un solo titolo di poesia. Poi vedi le classifiche e ti accorgi che il pubblico compra sì dei libri di poesia, ma sono appunto, nella maggior parte dei casi, autori “di cassetta”, che non piacciono o non convincono quasi mai gli addetti ai lavori (e non sempre per invidia). A me pare ci sia un grosso scollamento, nel settore, fra autori, editori e librai, su cosa vogliono, su cosa è realmente e dovrebbe essere la poesia oggi, e su chi sia il pubblico della poesia. E soprattutto sulle spalle di chi dovrebbero ricadere, senza falsi moralismi, il peso di questa crisi. Mi chiedo: perché gli autori, pur ammettendo candidamente che i libri di poesia non si vendono (né spesso loro per primi li comprano) poi invocano di continuo che la poesia rientri e si giustifichi in un sistema di mercato, dichiarando che un intero comparto editoriale debba sostenersi sulla vendita ai lettori, che non ci sono, e incolpando gli editori della loro incapacità di attrarli? Perché io editore mi ostino a pubblicare autori che ritengo all’altezza di un certo discorso culturale, spesso per semplice “posa” (se intanto ho le pezze al culo) quando poi lo stesso sistema culturale con cui mi confronto mi ignora bellamente, facendo leva proprio su meccanismi del mercato: “quanto vendi? di chi sei figlio/amico? chi ti hai recensito? E cosa mi puoi dare in cambio di una recensione?”. E perché i librai, in nome dei più alti valori della cultura, invocano dallo Stato maggiori attenzioni e garanzie rispetto alle prepotenze del mercato (vedi la questione della scontistica bloccata) quando poi applicano rispetto a libri, generi e case editrici, l’identico sistema mentale di utilità del mercato? In un sistema di mercato, visto che parliamo di cultura ma la cultura è anche egemonia, la cultura la fanno gli autori meglio diffusi e pubblicizzati, quelli che arrivano a un pubblico più vasto, il quale solo al raggiungimento di una certa fama dell’autore darà ascolto e credito a quella voce: i discussi casi della Merini o di Arminio, che i colleghi poeti guardano storcendo il naso, fanno oggettivamente più cultura di un bravo poeta recensito su un blog. Se la poesia di Arminio non piace ma scatena discussioni, anche in negativo, da parte di chi lo denigra, per definire il luogo dove dovrebbe invece essere la cultura, già in quello Arminio sta scatenando un discorso culturale che è doveroso affrontare, ma lo fa in virtù della sua visibilità raggiunta. Con me non capiterebbe mai, perché il mio limite culturale è nella mia insignificanza sul mercato. E dunque, in assenza di un mercato e di una cultura che mi consideri necessario (e degno) al suo discorso, in nome di chi o che cosa dovrei vivere/campare? Del mio ideale? Della mia dignità? Dei miei libri presi per se stessi, come puri oggetti estetici (e non a caso mi definisco, preferibilmente, un artigiano)? Per la poesia, è risaputo, ogni regola è sovvertita, e nella maggior parte dei casi il fruitore ultimo del libro non è più il lettore, ma l’autore stesso (che pure lo nega per orgoglio). Già da molto tempo, mi chiedo, ma me lo chiederò sempre: ma io per chi realizzo i miei libri? Per il pubblico dei lettori, talmente ridotto che le librerie ritengono sia una perdita di tempo pubblicizzarli? Per i siti di settore che li recensiscono e sono oramai, nella loro gratuità amatoriale, l’unica piazza di circolazione-discussione di un libro, specie se l’autore è ancora in vita (altro discrimine: morto un poeta ‘non’ se ne fa un altro, perché da morto il poeta vale doppio sul mercato)? O per gli autori stessi che, più o meno indirizzati dagli editori, comprano un tot di copie e le regalano ad amici e colleghi in un discorso che sempre più si fa autoreferenziale e solipsistico, per iniziati (ci manca solo un segno di riconoscimento come i massoni e siamo a posto)? Ma davvero è questa la “cultura” a cui ambivo partecipare? Non lo so, a parole non ci credo, ma a fatti è tutto ciò che abbiamo e a cui pare siamo destinati.

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