L’editoriale pubblicato oggi su Poesia del nostro tempo mi ha scatenato, come sempre riescono a fare, una serie di pensieri
assai poco rasserenati. La redazione ha contattato una settantina di
librerie per inserirle in una mappatura delle librerie che vendono
poesia in Italia e nessuna ha risposto all’appello. Cosa significa? Che
le librerie italiane – si parla sempre per grandi numeri qui, e non per
singoli casi – non sono interessate alla pubblicità derivata dalla
poesia, sia pure promossa da un sito che ha una certa visibilità, perché
non la vendono o ne vendono talmente poca di poesia, ai loro lettori
abituali (persone in carne ed ossa che comprano libri) che non hanno
interesse a promuovere e promuoversi, perché anche promuoversi richiede
tempo, e il tempo è denaro. Aggiungo una cosa a riprova di questo dato:
di recente mi è arrivato, dal mio distributore, il bollettino coi libri
più richiesti (che serve a orientarsi sui generi che vanno per la
maggiore): nel bollettino non c’è un solo titolo di poesia. Poi vedi le
classifiche e ti accorgi che il pubblico compra sì dei libri di poesia,
ma sono appunto, nella maggior parte dei casi, autori “di cassetta”, che
non piacciono o non convincono quasi mai gli addetti ai lavori (e non
sempre per invidia). A me pare ci sia un grosso scollamento, nel
settore, fra autori, editori e librai, su cosa vogliono, su cosa è
realmente e dovrebbe essere la poesia oggi, e su chi sia il pubblico
della poesia. E soprattutto sulle spalle di chi dovrebbero ricadere,
senza falsi moralismi, il peso di questa crisi. Mi chiedo: perché gli
autori, pur ammettendo candidamente che i libri di poesia non si vendono
(né spesso loro per primi li comprano) poi invocano di continuo che la
poesia rientri e si giustifichi in un sistema di mercato, dichiarando
che un intero comparto editoriale debba sostenersi sulla vendita ai
lettori, che non ci sono, e incolpando gli editori della loro incapacità
di attrarli? Perché io editore mi ostino a pubblicare autori che
ritengo all’altezza di un certo discorso culturale, spesso per semplice
“posa” (se intanto ho le pezze al culo) quando poi lo stesso sistema
culturale con cui mi confronto mi ignora bellamente, facendo leva
proprio su meccanismi del mercato: “quanto vendi? di chi sei
figlio/amico? chi ti hai recensito? E cosa mi puoi dare in cambio di una
recensione?”. E perché i librai, in nome dei più alti valori della
cultura, invocano dallo Stato maggiori attenzioni e garanzie rispetto
alle prepotenze del mercato (vedi la questione della scontistica
bloccata) quando poi applicano rispetto a libri, generi e case editrici,
l’identico sistema mentale di utilità del mercato? In un sistema di
mercato, visto che parliamo di cultura ma la cultura è anche egemonia,
la cultura la fanno gli autori meglio diffusi e pubblicizzati, quelli
che arrivano a un pubblico più vasto, il quale solo al raggiungimento di
una certa fama dell’autore darà ascolto e credito a quella voce: i
discussi casi della Merini o di Arminio, che i colleghi poeti guardano
storcendo il naso, fanno oggettivamente più cultura di un bravo poeta
recensito su un blog. Se la poesia di Arminio non piace ma scatena
discussioni, anche in negativo, da parte di chi lo denigra, per definire
il luogo dove dovrebbe invece essere la cultura, già in quello Arminio
sta scatenando un discorso culturale che è doveroso affrontare, ma lo fa
in virtù della sua visibilità raggiunta. Con me non capiterebbe mai,
perché il mio limite culturale è nella mia insignificanza sul mercato. E
dunque, in assenza di un mercato e di una cultura che mi consideri
necessario (e degno) al suo discorso, in nome di chi o che cosa dovrei
vivere/campare? Del mio ideale? Della mia dignità? Dei miei libri presi
per se stessi, come puri oggetti estetici (e non a caso mi definisco,
preferibilmente, un artigiano)? Per la poesia, è risaputo, ogni regola è
sovvertita, e nella maggior parte dei casi il fruitore ultimo del libro
non è più il lettore, ma l’autore stesso (che pure lo nega per
orgoglio). Già da molto tempo, mi chiedo, ma me lo chiederò sempre: ma
io per chi realizzo i miei libri? Per il pubblico dei lettori, talmente
ridotto che le librerie ritengono sia una perdita di tempo
pubblicizzarli? Per i siti di settore che li recensiscono e sono oramai,
nella loro gratuità amatoriale, l’unica piazza di
circolazione-discussione di un libro, specie se l’autore è ancora in
vita (altro discrimine: morto un poeta ‘non’ se ne fa un altro, perché
da morto il poeta vale doppio sul mercato)? O per gli autori stessi che,
più o meno indirizzati dagli editori, comprano un tot di copie e le
regalano ad amici e colleghi in un discorso che sempre più si fa
autoreferenziale e solipsistico, per iniziati (ci manca solo un segno di
riconoscimento come i massoni e siamo a posto)? Ma davvero è questa la
“cultura” a cui ambivo partecipare? Non lo so, a parole non ci credo, ma
a fatti è tutto ciò che abbiamo e a cui pare siamo destinati.
Poesie, pensieri e fotografie di Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, in arte Antonio Lillo ovvero Antonio Hammett
mercoledì 3 marzo 2021
il solito pezzo pieno di domande senza risposta
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