The
Lost Weekend di Billy Wilder (1945), film bellissimo e tremendo
sull'incapacità di dare una forma artistica, una regola e una ragione
alla propria vita: ecco che il primo film esplicito sugli effetti della
dipendenza dall’alcol è incentrato sulle vicende di uno scrittore in
crisi, non più connesso né con la Musa né con se stesso. O come dice
Birman, protagonista: il mancato suicidio di uno scrittore mancato. «La
mia mente era appesa fuori dalla finestra – aggiunge alla fine, voce
fuori campo – pendeva ciondoloni mezzo metro più in giù. Là in
quell'immensa foresta di cemento armato, chissà quanti ce ne sono come
me». Delle volte, leggendo le storie dei tanti autori che incrocio, non
tutti all’altezza, non tutti frequentabili, me lo chiedo anch’io. Nel
libro di Charles R. Jackson, da cui il film è tratto – che si pone come
un controcanto veritiero del mito fin troppo abusato dello scrittore
bello e alcolizzato –, non c'è un finale pacificato come nel film.
Birman parla da un punto in cui ormai si è perduto, divorato per sempre
dal proprio vizio. Come gli dice un infermiere dell’ospedale in cui
viene ricoverato: «Non esiste alcuna cura per chi beve, a parte smettere
di farlo. Ma quanti di loro ci riescono? Alla fine ritornato tutti
qui». Nel film, che concede qualcosa al pubblico, forse una svolta ci
sarà, ma d’altro canto – suggerisce lo stesso Wilder – è solo l'ennesima
promessa di un ubriacone, a cui si può scegliere di credere, oppure no.
Nessun commento:
Posta un commento