Questo, credo, sarà l’ultimo post che scrivo su Montanelli e la statua, un po’ perché mi sono rotto di tutte le polemiche in merito e un po’ perché sapevo già come andava a finire e quindi è inutile continuare. Però volevo dire un’ultima cosa, e cioè che spesso per le cose che diciamo/facciamo ci sono anche altri motivi che non vengono subito in superficie, ma stanno un po’ più a fondo e magari toccano solo in parte il nocciolo delle questioni. Così, leggendo le tante opinioni in merito, mi sono chiesto anch’io perché per certi versi mi toccasse così tanto questa faccenda della statua di Montanelli. E credo succeda anche perché quella statua non mi dice nulla come simbolo istituzionale, ma piuttosto mi parla come immagine. Tu guardi quella statua e pensi “Ecco Montanelli, fascista, colonizzatore africano, che comprò e stuprò una bambina”; io la guardo e non ci vedo un uomo che stupra una bambina (forse servirebbe Cattelan per quello), ci vedo solo l’immagine di un uomo seduto – come sul cesso – che sta scrivendo sulla macchina da scrivere, che potrebbe essere anche un pc. Lo so che manco di fantasia, e che qui vale un po’ il fenomeno del quadro di Magritte, “Ceci n’est pas une pipe”: poiché io ti scrivo sotto che quello è Montanelli tu ci infili dentro tutta la vita di Montanelli, e se è un’altra cosa tu penserai che è un’altra cosa, ma io non ho tutta questa fantasia e quindi se mi metti davanti un uomo seduto che scrive, anche se sotto ci scrivi “Montanelli” oppure “Filippo” oppure “Elefante a pois in volo”, io vedo solo un uomo seduto come sul cesso che scrive. È un mio limite. Ed eccone un altro: poiché io faccio la stessa identica cosa ogni singolo giorno per dieci ore al giorno, stare seduto come sul cesso a scrivere, inevitabilmente mi identifico in quell’immagine, che diventa una metafora della mia vita. Gli altri, più furbi di me, hanno delle vite, dei lavori, una famiglia, una identità alternativa alla scrittura, scrivono nei ritagli di tempo e sperano in uno spazio di attenzione che li risollevi dalla quotidianità. Io faccio solo quello dalla mattina alla sera, sto seduto a scrivere, dedicando tutta la mia vita alla scrittura mia e degli altri, pieno di dubbi e circondato da gente che ogni singolo giorno mi chiede: “ma è possibile, è reale, riesci davvero a viverci?” perché in fondo sono tutti convinti, anche chi mi vuol bene, che sto sbagliando, che sto peccando di presunzione. Ogni volta che qualcuno mi fa quella domanda io sorrido, farfuglio una battuta per stemperare il fastidio, ma in fondo mi sento come quella statua che si prende una secchiata di vernice in faccia. Un po’ come Montanelli, in cui non mi riconosco, ma che bene o male ha dedicato tutta la sua vita al giornalismo e si era illuso che questo bastasse a cambiare il giudizio della storia su di lui; anche io mi sono illuso che a furia di fare soltanto una cosa, stare seduto come sul cesso a scrivere, ne avrei fatto un’arma utile, sarei stato in grado di cambiarmi la fedina di fallito, almeno a posteriori. Invece proprio Montanelli ci insegna che non funziona così, che quello è destino di pochi eletti, tutti gli altri verranno ricordati per ciò che hanno fatto quando non scrivevano e resteranno, chi più chi meno, soltanto degli stronzi. "Ma che dici, tu sei bravo, tu non hai mica stuprato una bambina" mi direte. Ma nemmeno quella statua lo ha fatto. Quello che ha stuprato la bambina ora sta in un cimitero. La statua sta seduta in un parco e scrive e si prende le secchiate per tutti, proprio come sto facendo io. E anche se lo so che forse sto dicendo un mucchio di fesserie e non capisco la gravità dei peccati di Montanelli, probabilmente mi ha fregato il mio amore per “Il principe felice” di Wilde, che è il primo libro che mi ricordo di aver letto, regalo di mio padre, e con cui ho imparato che anche le statue sentono dolore.
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