«Anche i rami perfino i muschi
fanno ideogrammi»
(versi finali di Arresti frequenti).
C’è il quarto libro di Mario Benedetti, che non è Questo inizio di noi (piccola appendice a Tersa morte del 2013), ma Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006, volume che raccoglie le traduzioni di poesie del francese Michel Deguy pubblicato nel 2007 da Luca Sossella, che mi pare fondamentale per la creazione della sua seconda, centrale opera, scritta in contemporanea a quello e pubblicata nel 2008, Pitture nere su carta. Raramente un libro di traduzioni viene citato nella bibliografia fondamentale di un poeta. Eppure, al di là della semplice bellezza del libro di Deguy, mi pare evidente che senza quello non avremmo avuto la forte sferzata astratta di Pitture nere rispetto ai paesaggi più colloquiali, per quanto in chiaroscuro, di Umana gloria (2004). In Pitture nere su carta Benedetti raggiunge – a mio avviso – i suoi massimi esiti artistici, andando al cuore della parola stessa, come del resto suggerisce già nel titolo: pittura nera, ovvero immagine, ombra, allusione, ideogramma alla maniera giapponese: lì dove due ideogrammi di diverso significato, messi l’uno accanto all’altro formano una terza parola, terza immagine, terza direzione. Mai come in questo libro la sua poesia si fa disarticolata, spezzata, allusiva, proiettata sull’evidenza del nome inteso come segno puro in cui significante e significato coincidono alla perfezione: nome spesso sviscerato in elenchi e non come elemento costruttivo di una frase, di un verso, con una potenza evocativa che personalmente ho ritrovato solo in Nico Orengo. Stando in piedi, di fronte a questa scrittura-pittura scevra di abbellimenti discorsivi, tesa al grado zero della comunicazione col lettore, a una chiusura/apertura di significati correlata a una dimensione intima, spartana e quasi monastica della vita del suo autore, espressa sottovoce – e non a caso referente della raccolta è l’isolato e sordo Goya – si comprende paradossalmente come per spingersi a tanto serva un’assoluta fiducia nella capacità e nella forza della parola di esistere da sé, oltre l’autore, di significare in se stessa nuda e luminosa. Parola come eredità, testamento. E pensavo a come arrivare a tutto questo è stato in parte possibile proprio attraverso il filtro della poesia tradotta di Deguy, che segue gli stessi dettami ma su un piano forse più mondano, meno chiuso ed esistenziale. Pensavo alla bellezza di questo esercizio necessario di umiltà e amore per la parola che è la traduzione, in cui un autore mette in discussione se stesso e i proprio limiti attraverso il confronto con l’altro, di cui si fa spalla, complice, scalino; spesso è un altro scelto per affinità elettive, simile a sé ma non uguale, leggermente spostato in modo tale da offrire delle varianti, degli scarti minimi che possano stimolarci a nuovi percorsi e allo stesso tempo tesi ad arricchire il suo. Per cui la lingua di Deguy, pur restando fondamentalmente di Deguy, non sarebbe stata quella appena più asciutta e secca, intima e meno smaccatamente seduttiva di Arresti frequenti senza lo zampino di Benedetti e di contro, per un breve perfetto intervallo, la lingua di Benedetti, pur restando tutta di Benedetti, senza lo zampino di Deguy non sarebbe stata quella più arditamente sperimentale, verticale, lucida fino a essere (quasi) emotivamente distaccata di Pitture nere su carta.
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