sabato 22 dicembre 2012

storia di un canarino

Al lettore

Se leggi questi versi e se in profondo
senti che belli non sono, son veri,
ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO.


Nel 1951 Umberto Saba pubblica Quasi un racconto, l’ultima sua raccolta di poesie pubblicata in vita, che si appaia alla precedente Uccelli (1948), e raccoglie una selezione di versi scritti a partire dal 1948 e incentrati sul particolare rapporto di amicizia instaurato col canarino di casa.
Saba viveva in quegli anni un difficilissimo stato depressivo e tale amicizia riusciva, proprio per la sua particolare innocenza, a rincuorarlo da tanto dolore.

A un giovane comunista

Ho in casa – come vedi – un canarino.
Giallo screziato di verde. Sua madre
certo, o suo padre, nacque lucherino.

È un ibrido. E mi piace meglio in quanto
nostrano. Mi diverte la sua grazia,
mi diletta il suo canto.
Torno in sua cara compagnia, bambino.

Ma tu pensi: I poeti sono matti.
Guardi appena; lo trovi stupidino.
Ti piace più Togliatti.

È la poesia che apre la sezione Dieci poesie per un canarino, chiamato “Palla d’oro” ed è la più evidente, e ispirata, dimostrazione di un sentimento sincero e dolce, gioioso.
È stata Linuccia, la figlia di Saba, a convincerlo a pubblicare il libro, mettendo insieme una serie di poesie per certi versi private. Nel momento stesso in cui Saba si decide a pubblicare, però, la storia assume le tinte di un vero e proprio piccolo romanzo.

“Per una strana coincidenza, una coincidenza che fa pensare, il protagonista di “Quasi un racconto” – il canarino – fuggì, attraverso una griglia lasciata, e non da me, PER CASO, aperta. Fuggì, e non lo vidi più, tranne una volta che si posò, assieme ai passeri, ai quali s’era evidentemente riunito, sul davanzale della finestra, dove, nella speranza che vi rientrasse, avevo lasciata aperta e ben fornita di cibo, la gabbia. […] Un imbecille (che viceversa è un grand’uomo) scrisse, anzi telefonò, per “congratularsi” dell’accaduto. Secondo quell’euforico, il canarino s’era involato giusto quando, avendo esaurito il suo compito, la sua presenza era diventata inutile. Tutto insomma si sarebbe svolto come in una favola… Ma io non pensavo a me, e alle mie-sue poesie: pensavo a lui, alla sua probabile lenta agonia. Prova ne sia che il mio primo impulso, quando non lo vidi più, e vidi invece la griglia aperta alla sua sventura, fu quello di buttarmi dalla finestra.”

È una nota che Saba avrebbe voluto pubblicare in appendice al volume del 1951 e che poi non fu inserita, si dice, per questioni di tempi tipografici. L’imbecille, come lo definisce Saba, era in realtà Carlo Levi, suo vecchio amico, che dette il suo consenso alla pubblicazione della nota “un po’ a denti stretti”, e solo dopo l’accorato intervento di Linuccia che cercò di riappacificare gli animi fra i due. Alla fine, comunque, non se ne fece nulla.


La nota ha, per certi versi, un carattere semiserio, e d’altra parte rivela il profondo senso di angoscia vissuto in quegli anni da Saba (l’accenno a buttarsi giù dalla finestra è rivelatore in tal senso). Ma Saba era anche realmente preoccupato per il canarino, che avendo vissuto sempre in cattività non era in grado di procurarsi il cibo da solo.
La storia ha un epilogo triste quanto tragicomico, così come viene raccontato da Herbert L. Jacobson, allora direttore di Radio Trieste:

“Quando fuggì, Umberto Saba telefonò alla nostra sede per sapere se era possibile lanciare un appello via radio, per la ricerca del volatile. Poiché quel canarino rappresentava un simbolo letterario, e quasi un personaggio nazionale, ero ben disposto ad accontentarlo. Ma i miei colleghi, soprattutto i burocratici e i tecnici, mi dissuasero: per regolamento, la radio rifiutava appelli quasi quotidiani alla ricerca di piccoli animali perduti. Fatta un’eccezione per Saba, non avrebbero potuto rifiutare gli altri. Fu raggiunto un accordo: nessun appello radiofonico, però, data la mia posizione ufficiale nel Governo Alleato, avrei mobilitato alla ricerca del canarino polizia e vigili del fuoco. Lo feci, invano.”

Il canarino non verrà mai ritrovato e Saba morirà pochi anni dopo, nel 1957, lasciando una manciata di poesie piene di fatalistica rassegnazione sulla solitudine della vecchiaia e la morte imminente, pubblicate due anni dopo sotto il titolo di Epigrafe.

[…] Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e più se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
– TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.

(Nelle immagini opere di Juan Mirò. Per approfondire il complesso rapporto esistente fra Saba, Linuccia e Carlo Levi, si legga lo studio, a cura di Silvana Ghiazza, “Carlo Levi e Umberto Saba: storia di un’amicizia”, ed. Dedalo).

3 commenti:

amanda ha detto...

che tristezza

Anonimo ha detto...

Nulla succede per caso.

Francesca

sergio pasquandrea ha detto...

Saba, uno dei pochi grandi (veri) tragici della nostra letteratura. Anche se pochi lo capiscono.