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martedì 26 maggio 2020

tre scrittori a cui ho pensato ieri

Ieri sera mi sono iscritto al canale di Rai 5 per vedere lo speciale su Malaparte tanto pubblicizzato. L’ho trovato carino anche se un po’ troppo spostato su La pelle e pochissimo invece su Viva Caporetto che è invece un libro centrale, o meglio ancora il libro centrale di Malaparte perché è quello che ci dice dove nasce non solo il suo fascismo ma anche il suo antifascismo. Perché va bene l’opportunismo – e Malaparte fu un vero opportunista – ma è anche vero che l’adesione al fascismo fu per lui, come per molti, il risultato della delusione maturata al fronte, nel primo conflitto mondiale, verso gli ambienti del potere italiani e il modo in cui sfruttavano i soldati considerati niente più che carne da macello: delusione che lo porterà prima ad aderire al fascismo, credendo potesse essere una cura per il malgoverno dei Savoia e poi ad allontanarsene quando invece di correggerlo il fascismo a quel potere aderì in pieno. In quella delusione subì anche un processo di disincanto e ammaliziamento per cui cominciò a pensare che se non puoi vincere il nemico (e lui non poteva vincere contro Mussolini) è sempre meglio sfruttare ogni situazione a proprio vantaggio ed è lì che nacque l’opportunista che sappiamo. Tutto questo passaggio è saltato ed è venuto fuori un ritratto istrionico ma senza dramma e se a uno scrittore togli il dramma allora togli l’anima. 
Sempre sullo stesso canale Rai 5 però ho scoperto un’altra puntata di quel bel programma che è L’altro ‘900 dedicata a Parise, bella perché parte dalla casa di Parise a Salgaredo, una casa che lo scrittore amò molto e in cui nacquero i suoi Sillabari, senza la quale anzi i Sillabari avrebbero un diverso sapore perché lievitati in un altro forno, secondo una intuizione assai cara a Sergio Garufi. Ieri c’è stato il “compleanno” di Carver e tutti hanno tirato fuori i suoi libri e io mi chiedo sempre come mai i racconti dell’americano Carver sì e i tanti bei racconti di tanti italiani no, come se ci fosse un rifiuto inconscio. Quindi sarebbe un esercizio carino secondo me se ogni racconto di Carver che leggi, né leggi di contro uno di Parise o di qualsiasi altro italiano che preferisci, solo per ricordarti che ci sono altri paesaggi narrativi oltre a quegli alberghi pieni di cuochi divorziati che hanno problemi con l’alcol. Altri suoni, altre emozioni. Diciamo che Carver è come una pietra scagliata in un lago, c’è il tonfo del sasso che tocca l’acqua e poi affonda, il movimento delle onde concentriche. Parise invece è come una piuma che si posa sull’acqua leggera dopo un colpo di vento. Sono due modi diversi di toccare l’acqua ma hanno entrambi a che fare col liquido. 
Ancora Parise diceva questa cosa bellissima (la riporto a memoria): «Non si può essere completamente felici per scrivere, ma nemmeno completamente infelici». Questa cosa forse fa la differenza fra la grandezza drammatica di Carver e la leggerezza di Parise. Eppure, dovendo scegliere, non mi sento di invidiare Carver rispetto a Parise. Il primo era un uomo solo e fu salvato dall’amore di sua moglie Tess. Il secondo ebbe anche lui una moglie, ma ancora di più: «Menomale che ti ho conosciuto» gli dice un vecchio Raffaele La Capria (che di Parise fu amico) alla fine del documentario. E ho pensato, guardandolo, che bella una storia che comincia con la ricerca di una casa – Parise era orfano di padre e per questo passò buona parte della propria vita alla ricerca di una casa che fosse proprio sua, Salgaredo appunto – e finisce con un amico che ti ricorda con affetto. Mi sembra una vita riuscita, non completamente felice e nemmeno completamente infelice, e in mezzo scrittura e ancora scrittura e il colore verde dell’erba.

sabato 16 marzo 2019

vita breve di un nichilista felice

Era un individualista, ma un individualista non egoistico. Il mondo gli stava a cuore, eccome, ma come una galassia di fenomeni unici, tutti diversi gli uni dagli altri e sempre in movimento. Non appena subodorava accozzaglie costruite a forza, si ritraeva e, se poteva, fuggiva. Non amava la politica, e a volte fu anche scambiato – errore grave – per un reazionario. 
[…] Si sa, Parise è stato un ammiratore di Darwin. Gli interessava l’origine, quella sua e dell’umanità. Leggendo i suoi libri mischiava la prima con la seconda e forse trovava qualche consolazione. Col tempo – è questa la mia impressione –, dell’illegittimità famigliare gli è importato sempre meno. Si era abituato a considerarsi una persona sola. […] Era solo anche quando amava, anche quando il mondo dei sentimenti amorosi gli si era rivelato, lasciandolo attonito e stremato. 
La sua vera illegittimità era diventata quella letteraria. Ancora oggi è uno scrittore illegittimo. E si può supporre che questa condizione avrà finito per pesargli più dell’altra. Quanti scritti ha lasciato perdere per strada. E quante volte non è riuscito a darsi, mentre scriveva, con tutto se stesso. C’erano momenti che la fiducia in sé, come essere espressivo veniva meno. Si rintanava nel silenzio inoperoso.

Silvio Perrella, Vita breve di un nichilista felice, in appendice a Goffredo Parise, Lontano (Adelphi, 2009).

martedì 6 settembre 2016

completare il quadro

Quando Parise descrive i Sillabari come un’opera di poesia, io penso sempre che sia così perché è un libro che comincia con la parola Amore e finisce con la parola Solitudine, perché nel frattempo la poesia è morta e lui non è riuscito a completare il quadro della vita.